"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


sabato 30 ottobre 2010

Anteprima della Rivista 2011 di Kwizera

 E' in fase di stampa la Rivista 2011 di Kwizera che sarà in distribuzione entro metà novembre. Chi desidera sfoglierla in anteprima potrà  andare sul rinnovato sito   di Kwizera. Diamo qui di seguito un'anteprima della  nuova edizione. Angelo ci racconta come è nata la foto che arricchisce la testata del nostro blog.

L'ultima alba
Per scaricare la rivista clicca qui
Apro gli occhi e a fatica concentro lo sguardo sulle lancette dell’orologio: sono le 4.40 del mattino, un mattino speciale, quello che introduce al mio ultimo giorno di permanenza, durante la missione 2009, a Byumba. Mi avvicino al piccolo lavandino e afferro il rubinetto sgangherato con la speranza che venga fuori un qualcosa, ma anche per oggi, niente da fare. Frettolosamente mi preparo ed in punta di piedi scivolo fuori dalla mia cameretta, attraverso il cortile adornato da un piccolo giardino e salendo le ripide scale raggiungo il livello del sagrato della chiesa. Il guardiano al cancello mi saluta con un cenno, contraccambio e con passo deciso supero il piazzale, gli uffici delle Diocesi e mi dirigo dietro il locale cucina. È presto, approfitto del tempo per recitare le preghiere del mattino, passeggio avanti e indietro sul prato e mi godo di gusto l’aria fresca che precede la venuta del nuovo giorno. Come una sentinella avvicendo i miei passi e tendo con attenzione l’orecchio ad ogni minimo rumore. Il silenzio ovattato mi avvolge, ma dura poco, gli operai dell’adiacente cucina arrivano in loco e i rumori del loro affannarsi danno di fatto lo start ad una nuova giornata. Da li a poco le prime luci dell’alba si faranno breccia nella notte delle splendide colline rwandesi; non resta che avere ancora un po’ di pazienza. Sono tanti anni che vengo in Rwanda, ma mai avevo avuto l’opportunità di attendere l’alba. Martino mi ha chiesto una foto da inserire sul blog “Albe Rwandesi” ed io sono li, nell’attesa del giusto momento, per cogliere uno scatto decente.

martedì 26 ottobre 2010

In Rwanda c'è meno corruzione che in Italia

E’ stata presentata oggi dall'ong Transparency International la classifica sul livello di corruzione percepito (CPI) nei 178 paesi presi in esame. Il Corruption Perceptions Index (CPI) si è affermato come il parametro più credibile al mondo per misurare la corruzione nel settore pubblico.Oltre ai casi di corruzione in senso stretto, influiscono sul CPI tutte le questioni di malgoverno della cosa pubblica in senso lato che si manifestano in un paese. I Paesi ottengono un punteggio da zero a 10 (con zero che indica livelli elevati di corruzione e 10 bassi). La classifica per il 2010 è aperta dalla Danimarca, Nuova Zelanda e Singapore con un punteggio di 9,3 ed è chiusa da Iraq, Afghanistan con un punteggio di 1,4 e Somalia con 1,1.
L'Italia è al 67esimo posto, con un punteggio di 3,9, arretrando di quattro posizioni rispetto all’anno precedente, preceduta dal Rwanda piazzatosi al 66esimo posto con un punteggio di 4,0, in risalita dal 89esimo posto del 2009. Il Rwanda è tra i paesi africani più virtuosi, preceduta in classifica solo da Botswana (5,8), Sud Africa (4,5), Namibia (4,4), Tunisia (4,3) e Ghana (4,1).

Ancora a proposito di jatropha

Produrre combustibile ricavandolo dalle piante di moringa, jatropha o dalla palma: questo è l'obiettivo del governo ruandese per limitare la dipendenza energetica del paese dal legname e dal petrolio, anche se alcuni sono scettici, temendo che queste colture sottraggano spazio alle colture alimentari.Finora presso l’IRST ( Istituto rwandese di ricerca scientifica e tecnologica) è stato messo in funzione un impianto che ricava biodiesel dall’olio di palma importato da Goma, nel vicino Congo. Dopo questo primo esperimento i tecnici dellIRST stanno girando il paese per informare le autorità locali, il pubblico e il settore privato sulla coltivazione di colture biodiesel come la soia, la jatropha e la moringa per cercare di affrancarsi dalla dipendenza del costosissimo petrolio che il Rwanda deve importare, e soprattutto trasportare per migliaia di kilometri, dai porti della costa tanzaniana e keniana. Ricordiamo che un litro di diesel costa in Rwanda un euro: più della paga di una giornata di un lavoratore agricolo. 
Nyagahanga: le prime piante di jatropha
Per questo il governo sta spingendo per la messa a coltura di queste piante, tenendo però conto che il Rwanda con la sua altissima densità abitativa non può certo permettersi di sottrarre terreni alle coltivazioni alimentari come fa l’esteso Brasile che ricava carburanti da produzioni alimentari come la canna da zucchero o la soia. Alla luce di queste preoccupazioni, il Dipartimento delle Foreste sembra privilegiare la jatropha. Infatti, questa pianta che i nostri quattro lettori già conoscono bene, si coltiva in regioni aride e semi-aride come la provincia del Sud e dell'Ovest, dove non entra in competizione con le colture alimentari, dà la sua prima raccolta dopo soli 18 mesi e vive lungo.Inoltre, il suo olio non commestibile è più facile da trasformare in carburante rispetto all’olio di palma.  Da ultimo la jatropha si presta benissimo a  svolgere un'importante opera di contrasto dell’erosione dei terreni collinari.
Così a maggio a Nyange, nel Distretto di Ngororero nella provincia occidentale,  sono state messe a dimora 4.000 piantine di jatropha, chiamata kimaranzara (l'albero che mette fine alla fame), con il Sindaco , Cyprien Nsengimana ,  che, deciso a farne una priorità, così si esprime: "Ogni famiglia dovrebbe coltivare almeno 100 alberi di jatropha sui propri terreni, mescolati con altre colture e / o ai bordi delle strade».
A Nyagahanga, l'Associazione Kwizera ci sta pensando, anche se sembra di predicare nel deserto.

sabato 23 ottobre 2010

Un pensiero per la giornata missionaria

Il clero della diocesi di Byumba: gli eredi dei missionari di ieri
Quando si parla del mese missionario, a volte si pensa a una preghiera piuttosto che ad alcuni semplici gesti di attenzione verso lo straniero che incontriamo nella vita di tutti i giorni ( extracomunitari…).E’ bene fare questo, ma  si dovrebbe anche rivivere la storia dei nostri missionari che lasciando il loro paese si sono recati in terre lontane, affrontando tantissime difficoltà di ambientamento e di confronto con culture diverse, avendo come finalità quella di trasmettere quanto a loro volta ricevuto dai propri padri: la fede in Cristo Gesù. La fede, che s’accompagna con la speranza che tutto sarà fatto da Lui e non tanto da noi, è un frutto dell’amore vero che accetta tutto, fino al dono totale di se stessi. E’ ciò che chiamiamo: sacrificio. Alcuni di questi missionari sono morti in viaggio, senza arrivare alla meta, per incidenti o a causa delle malattie, altri sono stati uccisi dalle persone ostili al cambiamento che la radicalità del Vangelo richiedeva, altri però hanno accettato di continuare ad annunciare il Vangelo dell’amore di Dio, con l'unico "vero" linguaggio che avevano: dare soprattutto testimonianza con la loro vita.  Ma come puoi pretendere di annunciare il Vangelo se non conosci la lingua e la cultura di quelli che ti ascoltano? E’ vero, “beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica”.  Se non riescono  ad annunciare la  Parola ad altri, basta che la mettano in pratica e quelli che li vedono cercheranno di seguirli per essere nutriti di questa ricchezza che portano dentro di loro.
L’umiltà e la dolcezza di cuore dei primi missionari ha fatto breccia nel cuore di chi viveva accanto a loro. Poi, piano piano cominci ad imparare la lingua, le abitudini e i costumi e finalmente puoi trasmettere loro ‘il dono’: il messaggio di salvezza del Cristo. Questo lavoro è costato tanto sacrificio ai nostri missionari, perché hanno dovuto ogni tanto morire in quello che era il loro modo di vivere, per avvicinare questi nuovi fratelli in Cristo.Cosi e solo cosi, dal granello di senape è cresciuto un albero, che adesso sta fiorendo in tutti i continenti del mondo. In questo mese missionario, non possiamo dimenticare che l’annuncio del Vangelo ci chiede un sacrificio: dobbiamo morire alle nostre abitudini di chiusura in noi stessi per aprirci all’altro, per accogliere l’altro che ci porta una ricchezza di quello che ha e soprattutto di quello che è. Innanzitutto, capire il suo linguaggio cioè il suo modo di vivere, le sue attese, le sue sofferenze, le sue speranze, poi, conoscendosi anche nell’interiorità, finalmente far passare una parola di speranza che gli cambi la vita: il Vangelo, cioè il messaggio di salvezza che cambia il modo di vivere e  dà la forza della fede. Perché in quel messaggio si scopre che c’è Qualcuno che è immensamente Amore e che non si può più vivere veramente senza essere in Lui.
Don Paolo Gahutu

Suggeriamo la lettura anche di questo contributo di Padre Piero Gheddo ( clicca qui)

Se sui rifiuti ci dà lezione il Rwanda

"Al momento, il pubblico può non essere consapevole dei vantaggi che, alla lunga, possono derivare dallo smistamento dei rifiuti. Per invertire questa tendenza, bisogna agire. I media, il governo e altri soggetti  che si occupano di materia ambientale, dovrebbe avviare una grande campagna di sensibilizzazione pubblica per informare  la popolazione su come gestire al meglio i propri rifiuti. La gente non dovrebbe soltanto imparare a separare i propri rifiuti, ma anche prendere l'abitudine di farlo. E' nell'interesse  di tutti  proteggere il nostro ambiente".
La citazione riportata non si legge  sui quotidiani italiani di oggi  a corredo della notizia dell'intervento del governo italiano per risolvere l'ennesima emergenza rifiuti in Campania, è semplicemente la conclusione dell'editoriale odierno che il  quotidiano rwandese The New Times  dedica  alla promozione di  una corretta gestione dei rifiuti racomandando l'introduzione della raccolta differenziata nella capitale.  

martedì 19 ottobre 2010

Letto per voi: Africa social club

Una Kigali, che agli inizi degli anni 2000 cerca a fatica di scrollarsi di dosso i fantasmi della tragedia del 1994,  fa da sfondo a questa storia costruita attorno al piccolo universo familiare di una famiglia proveniente dalla vicina Tanzania: Angel, cinquantenne,  suo marito Pius, professore al Kist, e i loro cinque nipoti. Angel è una donna saggia e sensibile che fa delle splendide torte personalizzate per i suoi clienti. Tutto il romanzo gira attorno ai colloqui che si snodano, davanti a una tazza di the al cardamomo e un piatto di dolcetti, con i suoi vari clienti  per cogliere l'ispirazione per personalizzare la torta  che andrà ad allietare una festa: da un  battesimo  a una cresima, da un fidanzamento a un matrimonio e, perfino, un divorzio.  E così, tra una glassa di cioccolato e una spolverata di zucchero a velo, Angel ascolta, consola e dispensa consigli che possono anche cambiare  la vita ai suoi interlocutori. Sono storie, spesso dolorose, che  non possono lasciare indifferenti. Come la storia del capitano Calixste, rapito da ragazzino nei pressi di Ruhengeri e avviato forzosamente alla vita militare, che, segnato interiormente, e forse anche nella testa, dalle campagne miltari vissute nel vicino Kivu, "Eh, le cose che abbiamo fatto laggiù", è alla ricerca di  una donna europea che lo porti lontano dal Rwanda. Ma le tragedie non sono solo all'esterno, anche Angel e Pius portano il gravoso fardello di un figlio e una figlia persi tragicamente. L'autrice, la zambiana Gaile Parkin, partendo dal piccolo  mondo  dei wazungu delle varie organizzazioni internazionali impegnate nelle ricostruzione del paese, che meglio conosce avendone fatto parte per alcuni anni proprio a Kigali dove ha operato nell'assistenza alle donne e ragazze sopravvissute al genocidio, ci offre il quadro di un Rwanda che porta dentro di sè le ferite del suo tragico passato ma anche la grande voglia di riprendersi la propria vita  nel segno della speranza. 


Africa Social Club: ( ed. Newton Compton), di Gaile Parkin, €14,90.

lunedì 18 ottobre 2010

Muzungu: chi era costui?

Quante volte ci siamo sentiti indirizzare l’epiteto muzungu dai ragazzini festanti dei villaggi rwandesi, magari accompagnati da un più ruffiano amafaranga, cioè “soldi”. Ma cosa significa il termine muzungu, (al plurale wazungu)? Genericamente è il termine con cui si definisce l’uomo bianco, in particolare l’europeo. L' etimologia della parola deriva da una contrazione di parole che significa "colui che vaga senza meta" (dalle parole swahili zungu, zunguzungu, zunguka, zungusha, mzungukaji, Intenzionate ad andare in tondo) e fu coniato per descrivere gli esploratori europei e missionari arrivati in Africa orientale nel XVIII secolo.Un amico rwandese ci fornisce una spiegazione diversa e per certi versi decisamente più interessante che riferiamo così come ci è stata raccontata. Secondo questa versione, in Rwanda questo termine sarebbe stato coniato per definire i primi missionari giunti alla corte del mwami a Nyanza a inizio novecento, ma con un significato diverso da quello di “uomini senza meta”. Il muzungu,dal verbo kinyarwanda “kuzungura = "sostituire nel posto”, secondo questa versione, sarebbe colui che potrebbe mettere a repentaglio il potere dei notabili della corte regale sostituendoli nel loro posto, da noi si direbbe facendogli le scarpe. 
Missionari alla corte del Mwami

A sostegno di questa versione, denotante i timori dei maggiorenti locali verso questi missionari provenienti da fuori, c’è anche il comportamento assunto dagli stessi maggiorenti di corte. Dapprima invitarono le famiglie a non concedere il fuoco, conservato in ogni capanna, ai nuovi venuti. Quando i missionari dimostrarono di poter accendere il fuoco autonomamente senza aver bisogno che gli venisse trasferito dai residenti, si passò alle maniere forti, incendiando le capanne dove i missionari si erano installati.  Quando i missionari si dotarono di abitazioni in muratura e ricoperte da lamiere atte a resistere al fuoco, a corte  ci si rassegnò, non senza bollare però i nuovi venuti con il termine di  muzungu denotante un malcelato timore  che i nuovi venuti si potessero rivelare dei concorrenti insidiosi per i consiglieri di corte.

martedì 12 ottobre 2010

Nei villaggi rwandesi si diffondono gli impianti per la produzione di biogas

Più di 350 impianti di produzione di biogas ricavato dalla fermentazione di materia organica prodotta nelle stalle o in comunità ( scuole o campi militari) sono già stati installati in Rwanda. Il gas naturale prodotto in seguito ad un processo batterico di fermentazione anaerobica a 38°C della materia organica, composto dal 60-70% di metano (CH4), può fornire un’ottima fonte di energia elettrica e termica, mentre il residuo della fermentazione può essere reimpiegato come ottimo fertilizzante in agricoltura. Per incoraggiare gli agricoltori a costruire questi impianti, il National Domestic Biogas Program (NDBP) finanzia il 30 per cento della struttura di deposito a condizione che ci siano almeno due vacche allevate nelle stalle.L'obiettivo è quello di raggiungere l'installazione di almeno 5.000 unità entro la fine del 2012. Nel frattempo già sono in funzione grandi impianti in sei carceri rwandesi e sono stati avviati impianti pilota in tre grandi scuole del paese.
Il costo di costruzione di un impianto di sei metri cubi di gas, valido per le esigenze di una famiglia media di cinque persone, è di 800.000 franchi ruandesi (RWF, circa €1.000).Oltre al contributo statale c'è anche la possibilità di accedere a un prestito specifico delle Banche Popolari. Finora, in Rwanda il gas prodotto è stato prevalentemente usato in cucina in sostituzione della legna, anche per limitare il fenomeno del disboscamento, e per l’illuminazione con le apposite lampade a gas. In realtà, gli impianti di questo tipo possono anche alimentare elettrogeneratori o microturbine e produrre direttamente energia elettrica. Da noi il sistema è diffuso soprattutto nelle grandi fattorie della pianura Padana dove esistono impianti che producono energia elettrica direttamente immessa in rete. La realizzazione di un impianto della specie potrebbe sicuramente interessare la fattoria di Nyinawimana, piuttosto che quella più piccola di Nyagahanga, per non parlare della scuola dell’EFA con i suoi 600 studenti.

domenica 10 ottobre 2010

Ma il Rwanda non è solo Kigali

Il Corriere della sera del 7 ottobre u.s. dedica un pezzo a Kigali ( leggi l'articolo cliccando qui), la capitale rwandese con annessa intervista al sindaco, la dottoressa Aisa Kirabi Kacyira. Ne esce il solito ritratto, già scritto  da tanti altri  ( ricordo analoghi pezzi di un noto inviato  de La Repubblica e su uno dei magazine dello stesso Corsera con Kigali equiparata a Zurigo,  ): strade ben curate, luce e acqua dappertutto, niente sacchetti di plastica, moderni progetti di edilizia residenziale.In una parola, quella che, tra addetti ai lavori, si direbbe una bella "marchetta".Purtroppo, per molti giornalisti scrivere del Rwanda significa limitarsi a presentare i progressi della sua capitale: un pezzo veloce, infarcito dalle solite note di colore, standosene comodamente sul terrazzo di uno dei nuovi alberghi della capitale sorseggiando una fresca Primus.Se poi sei arrivato a Kigali a spese di una società di pubbliche relazioni, che ogni tanto fanno arrivare in redazione inviti per un viaggio in Rwanda, ancora meglio; al giornale non avranno fatto difficoltà ad autorizzare il viaggio e la società di pubbliche relazioni potrà presentare la sua bella rassegna stampa al committente. Mai una volta che questi giornalisti escano dalla capitale e si spingano nel Rwanda delle campagne e delle colline, misurandosi con la dura e ben diversa realtà dei villaggi.
Chissà che idea si saranno fatti i lettori del Corsera degli "stili" di vita degli altri otto milioni di rwandesi che vivono al di fuori della capitale e delle altre principali città del paese?
Sarà per la prossima corrispondenza. D'altra parte, cosa pretendere da questi poveri giornalisti, se un'intervista al sindaco di Kigali, fatta per telefono , magari, senza neppure  muoversi   dal  proprio buen ritiro, basta e avanza per scrivere il solito pezzo sul Rwanda?

venerdì 8 ottobre 2010

Se i riconoscimenti non sono pari alle attese

Le risultanze dell'Index Mo Ibrahim 2010 di cui abbiamo dato notizia nel precedente post sembra non siano state accolte con molto favore in Rwanda. Infatti, in un'intervista al The Times New, il Prof. Anastase Shyaka,  segretario esecutivo del Rwanda Governance Advisory Council  (RGAC), ha detto che l'Index 2010, pur evidenziando un punteggio superiore alla media regionale per l'Africa orientale, è lontano dalla verità, parziale e fuorviante, avendo totalmente travisato i dati reali  in alcune sotto-categorie come la sicurezza nazionale e lo stato di diritto, la partecipazione economica e l'accesso a internet. Senza nascondere la propria amarezza per il trattamento che i ricercatori della Mo Ibrahim Foundation hanno riservato al Rwanda, il prof. Shyaka parla apertamente di un piano per indebolire  deliberatamente  l'immagine del paese, aggiungendo "Pensiamo che il motivo di queste differenze è o perché in Mo Ibrahim Foundation ci sono persone che non vengono informate affatto, o che volutamente vogliono diffondere informazioni errate sul paese" rischiando così di far perdere credibilità al Mo Ibrahim Index per la buona governance. Anche se alcune osservazioni del prof. Shyaka sembrerebbero avere qualche fondamento, va sottolineato come le risultanze riportate dai ricercatori della Mo Ibrahim Foundation siano solo l'ultimo dei segnali di un certo cambiamento di clima che a livello internazionale sta interessando il Rwanda: sempre più spesso,  ai riconoscimenti  a cui eravamo abituati circa i molti progressi messi a segno dalla governance rwandese, si affiancano anche le critiche su quanto non va. Bisognerà farsene una ragione, senza necessariamente scomodare teorie complottarde.

martedì 5 ottobre 2010

Indice Ibrahim per la governance 2010

E’ stato presentato ieri l’“Indice Ibrahim per la Governance”, la classifica realizzata dalla fondazione di Mo Ibrahim che giudica, secondo parametri obbiettivi e quantificabili, i governi dei paesi africani subsahariani, misurando la fornitura di beni pubblici essenziali e servizi ai cittadini attraverso 88 indicatori.L’Indice è stato creato per informare e responsabilizzare i cittadini e sostenere i governi del continente , i parlamenti e i vari attori della società civile nei loro sforzi per valutare i progressi della governance in Africa.L'Indice 2010 mostra sia progressi che passi indietro nella qualità della governance africana tra 2004-2005 e 2008-2009 ( il periodo più recente valutato): in molti paesi ci sono stati miglioramenti per quanto attiene lo sviluppo economico e lo sviluppo umano senza, tuttavia, passare sotto silenzio le molte battute d'arresto nei settori dei diritti politici, della sicurezza umana e della sovranità della legge. La qualità complessiva della governance in Africa rimane sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti , con un punteggio medio di 49 per l'intero continente. La classifica è aperta dalle Isole Mauritius 1 Mauritius 81,8    -  2 Seychelles 74,5 -3 Botswana 74,2 -4 Cape Verde 73,8 -5 South Africa 70,2 e chiusa dalla Somalia  49 Eritrea 32,8-50 Zimbabwe 31,9-51 Congo, Democratic Rep. 31,7-52 Chad 30,6-53 Somalia 7,9.
Per quanto riguarda la performance del Rwanda nel 2010 l'Ibrahim Index of African Governance evidenzia
un punteggio complessivo di 48 per la qualità della governance nel 2008-2009 che la colloca al 31 ° posto sui dei 53 paesi presi in esame, con un punteggio superiore alla media regionale per l'Africa Orientale , che è 45, e appena al di sotto della media continentale che è 49. Le performance del Rwanda nelle singole categorie e sottocategorie prese in esame sono riportate nella seguente tabella che evidenzia punti di forza e ambiti di miglioramento possibili:
                                                     

Per confrontare con le risultanze della passata edizione basta leggere il nostro precedente post del 13 ottobre 2008 cliccando qui.

lunedì 4 ottobre 2010

Nuovo vocabolario Kinyarwanda-Inglese

 E’ stato presentato nel fine settimana a Kigali un nuovo dizionario bilingue Kinyarwanda-Inglese , edito da Fountain Publishers Ltd e curato dal prof Geoffrey Rugege, un professore rwandese che ha vissuto per quasi trenta anni negli USA. Secondo i promotori, la nuova opera dovrebbe consentire ai rwandesi della diaspora di avvicinarsi alla madrelingua, come è stato il caso dei figli dell’autore, e ai rwandesi di apprendere la nuova lingua che da questo anno scolastico ha fatto il suo ingresso ufficiale come lingua d’insegnamento nelle scuole. Consentirà anche a tanti visitatori e amici del Rwanda di dare finalmente una forma ortografica corretta ai più comuni  vocaboli ascoltati nella vita di tutti i giorni e magari appuntati in maniera approssimativa.

domenica 3 ottobre 2010

L'Africa nera secondo il premio Nobel Vidia Naipul

Riprendiamo oggi dall'interessante blog di Padre Piero Gheddo questa recensione dell'ultima fatica letteraria del premio Nobel per la letteratura del 2001, Vidia Naipul, senza nascondere che ci ha suscitato una grande voglia di leggere quanto prima quel reportage.

Non abbiamo mai finito di comprendere gli altri popoli, le altre culture e religioni.
L’Africa nera torna ogni tanto alla ribalta dell’attualità, purtroppo quasi sempre per avvenimenti negativi, carestie, guerre tribali, dittature, immigrazioni clandestine verso l’Italia. Si dice che bisogna dare a quei popoli maggiori finanziamenti, aiutarli a svilupparsi in casa loro, smetterla di rapinare l’Africa delle sue ricchezze naturali, ecc. Da mezzo secolo siamo abituati a questi ritornelli e molti non capiscono come mai l’Africa nera non si sviluppa. Poi arriva un Premio Nobel della Letteratura (nel 2001), Vidia Naipaul, indiano dei Caraibi, con un libro che capovolge tutte le nostre conoscenze e credenze: “La maschera dell’Africa” (Adelphi 2010, pagg. 290).
Un libro contro corrente, attaccato e censurato dall’intellighenzia “liberal” e progressista, che accusa l’Autore di aver dato una visione razzista degli africani, raccontandolo come un mondo primitivo e violento, dove sopravvivono in modo massiccio riti religiosi ancestrali basati su sacrifici, magia, stregoneria. Lui risponde: “Scrivo la verità, chi mi accusa di razzismo è un terzomondista in malafede”.
Il volume è la cronaca meticolosa di una sua recente visita-inchiesta in Africa (dal marzo 2008 al settembre 2009), alla ricerca delle radici religiose e culturali dell’Africa nera. Vuol capire meglio l’Africa e pensa, a ragione, che la religione tradizionale sia la chiave per entrare nella cultura e mentalità degli africani. Visita vari paesi: Uganda, Ghana, Nigeria. Costa d’Avorio, Gabon e Sud Africa e scrive: “Ero convinto che nell’immensa vastità dell’Africa le pratiche magiche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. Ovunque ho incontrato indovini che ‘gettavano le ossa’ per leggere il futuro e ovunque ho ritrovato la stessa idea di una ‘energia’ da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale”.
Naipaul non solo racconta in modo preciso fatti che ha visto e che già conosciamo, la magia, la stregoneria, la credenza negli spiriti, i sacrifici di animali, ma dice che ha sentito il bisogno, “da non credente quale sono, di andare al cuore delle cose, di avvicinarmi ancora di più all’ Africa, attraverso le credenze”. E ha scoperto quanto gli studiosi dell’Africa già sanno. Con una differenza. Chi studia l’Africa legge di riti e magie in un modo, come dire, distaccato, pensando che la vita oggi è molto cambiata e tutto si riferisce ad un lontano passato. Naipaul invece incontra e parla con scrittori, uomini politici, professori universitari, giornalisti e molta gente comune e documenta come proprio quelle credenze sono radicate nella cultura e mentalità di molti, rappresentano un punto di riferimento diffuso e sono, in fondo, un forte ostacolo allo sviluppo. “L’africano medio – scrive – ha molta paura della religione pagana e questa resiste” (pag. 93). L’africano medio, in fondo, vive una schizofrenia profonda: da un lato accetta e desidera di entrare nell’attualità del mondo moderno, dall’altro la sua cultura tradizionale lo riporta al passato da cui non vuole e non può staccarsi.

venerdì 1 ottobre 2010

Ferma presa di posizione della Chiesa anglicana rwandese contro l'omosessualità

Il vescovo anglicano  rwandese Onesphore Rwaje, attualmente  vescovo di Byumba, che succederà all’ arcivescovo Emmanuel Kolini nel prossimi gennaio alla guida della comunità anglicana rwandese, ha recentemente preso ferma  posizione, nel solco di quanto fin qui sostenuto dal suo predecessore,  contro  l’omossessualità. La Chiesa anglicana rwandese, come altre comunità anglicane del terzo mondo,  respinge così  certe aperture che altre comunità americane ed europee hanno fatto nei confronti dei matrimoni gay. La recente consacrazione episcopale di un pastore americano, dichiaratamente gay,  ha portato la chiesa anglicana rwandese a una scissione. Il vescovo Rwaje ha bollato l’omosessualità come una pratica, introdotta da persone che vogliono secolarizzare la teologia, del tutto inaccettabile e contraria all’insegnamento biblico. Ancora più duramente l’attuale arcivescovo Kolini  aveva bollato l’omossessualità come “genocidio morale” tra i cristiani e una nuova forma "d’imperialismo culturale". Anche la società civile rwandese non è molto propensa ad accettare l'omosessaulità come normale costume di vita, tanto che nel recente passato era stata ipotizzata e discussa l'introduzione di norme penali che punivano tale pratica; poi però, anche a seguito delle reazioni internazionali, il progetto è stato lasciato cadere.