"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


domenica 29 gennaio 2023

Rwanda: le donne conquistano i vertici di finanza e banche

 Dopo aver conquistato la maggioranza  in Parlamento, collocandosi al primo posto al mondo, e nel Governo (leggi qui), le donne ruandesi hanno rivolto la loro attenzione al mondo della finanza ed a quello bancario. Nel settore assicurativo, 2 società sono guidate da donne CEO, Annie Nibishaka (UAP Rwanda) e Ovia Tuhairwe (Radiant Yacu, mentre altre 4 società hanno il loro consiglio di amministrazione guidato da donne, così come l'Associazione degli assicuratori ruandesi. Donne guidano anche importanti istituzioni finanziarie, tra cui gestori di fondi come BK Capital (Carine Umutoni) e Mobile Money.Le donne occupano anche oltre il 30% delle posizioni nei consigli di amministrazione delle istituzioni finanziarie locali. Ma è soprattutto il settore bancario che parla al femminile. Basti pensare che ben 6 delle 16 banche locali, sono guidate da donne: Diane Karusisi (Bank of Kigali), Alice Kilonzo (Ecobank), Lina Mukashyaka (NCBA), Christine Baingana (Urwego Bank), Arah Sadava (AB Bank) e Kampeta Sayinzoga (BRD). Anche i consigli di amministrazione di due altre banche locali sono guidati da donne: Evelyn Kamagaju (Equity Bank) e Chantal Mubarure (Access Bank). Senza dimenticare Soraya Hakuziyaremye, Vice Governatore della Banca Centrale dal 2021, dopo essere stata ministro del commercio e dell'industria dal 2018.Tutte queste donne hanno raggiunto le posizioni ricoperte grazie ad un ambiente, quello raundese, dove la presenza femminile ha da sempre infranto quel soffitto di vetro, incubo delle femministe di casa nostra, ma anche grazie a curricula di tutto rispetto, sia a livello di studi che di esperienze professionali dal respiro internazionale (leggi qui).

venerdì 27 gennaio 2023

Se "ogni Paese è anche dello straniero", come recita la Fratelli tutti, che succederà in Africa?

 Alla vigilia del viaggio in Africa di papa Francesco, in Sud Sudan e nella R.D. del Congo, forse il paese al mondo che conserva le maggiori ricchezze minerarie, torna di attualità un punto dell’enciclica Fratelli tutti, a suo tempo non particolarmente trattato dai commentatori. Ci riferiamo al paragrafo 124 della terza enciclica di papa Francesco, che così recita: “La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».”               E' di tutta evidenza come una simile affermazione assuma risvolti particolarmente rilevanti in un continente particolare come l'Africa. Se, infatti, in altri continenti, dove gli Stati hanno confini storicamente consolidati e nessuno oserebbe avanzare rivendicazioni di tipo territoriale o sulle ricchezze altrui, questa tesi non dovrebbe suscitare particolare interesse, non sembra si possa dire altrettanto se riferita alla realtà africana. L'artificiosità di quasi tutti i confini dei Paesi africani, frutto del processo di decolonizzazione della metà del secolo scorso, la grande disponibilità di risorse minerarie e fossili, o semplicemente di terreni coltivabili, diversamente distribuite fra i diversi Paesi, la debole struttura statuale di molti di questi Paesi: sono tutti elementi che potrebbero innescare un uso strumentale ed improprio dell'annuncio che  ogni Paese è anche dello straniero nel senso che la destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Non è sicuramente azzardato ipotizzare che un simile principio  possa essere agevolmente brandito da diversi governi come giustificazione per dare sfogo ai propri rivendicazionismi nei confronti di vicini più beneficiati da madre natura, in termini di ricchezze naturali e di spazi. Ne scaturirebbe una serie infinita di dispute di confine, con inevitabili risvolti militari, così da portare in breve tempo a una sostanziale riconfigurazione della carta politica del continente. Si pensi per un attimo a quale destino andrebbe incontro  l'area del Kivu, teatro  in questi mesi di una vera e propria escalation militare di un conflitto che si trascina da almeno un ventennio. La regione del Kivu è un territorio dalle immense ricchezze minerarie, facente parte di uno Stato, la Repubblica democratica del Congo, con una densità abitativa estremamente contenuta di 39 abitanti per kilometro quadrato, a fronte di quella dei Paesi vicini: 195 dell'Uganda e 495 del Rwanda. In questa area da oltre un ventennio si confrontano, tra scontri e violenze,  diversi protagonisti, dai padroni della guerra locali ai Paesi confinanti, Rwanda e Uganda in primis, tutti ben decisi a non mollare la presa sul ricco forziere congolese. Già in passato era stata avanzata l'ipotesi da esponenti dell'amministrazione americana di arrivare a una vera e propria spartizione del Kivu tra i vari paesi confinanti, obiettivo non troppo nascosto del Rwanda e dell'Uganda. Tale idea fu però accantonata per non creare un pericoloso  precedente che avrebbe innescato una corsa di diversi Paesi africani alla revisione dei confini, con conseguente destabilizzazione, in breve tempo, dell'intero  continente africano. Ma ora, alla luce di questo importante imprimatur, siamo sicuri che qualcuno non colga l'occasione per dare una base "ideale" ai propri progetti espansionistici?    

domenica 8 gennaio 2023

La storia dei 41 orfani ruandesi portati in salvo in Italia nel 1994

Avevano tra i 4 mesi e i sei anni quando, nell’aprile del 1994, furono strappati dalla guerra civile in corso in Rwanda e portati in salvo a Castenedolo, in provincia di Brescia. Sono i 41 bambini, ora diventati giovani uomini e donne, che vivevano nell’orfanotrofio Santa Maria a Rilima (a 60 chilometri dalla capitale Kigali), sostenuto dalla Fondazione Tovini, da Medicus Mundi e dall’associazione Museke. La loro storia viene ricordata in questo articolo del Giornale di Brescia (clicca qui). I 41 orfani di Rilima si salvarono  grazie all’iniziativa di un gruppo di bresciani, impegnati in Africa come volontari. Quando, dopo l’inizio dei massacri in seguito all’attentato all’aereo presidenziale, i miliziani armati si presentarono all’orfanotrofio agli 11 bresciani non restava che scappare, ma all’aeroporto i soldati belgi scortarono solo i cittadini europei. Solo l’insistenza dei volontari convinse il comandante belga  a tornare all’orfanatrofio a riprendere  e salvare anche i bambini.Il salvataggio viene così ricostruito nell’articolo. “Gli italiani tornarono in patria il 13 aprile e da quel momento scattò la mobilitazione. Il politico bresciano Mino Martinazzoli sollecitò il ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, fino a che un primo gruppo di 21 piccoli ruandesi avvolti in coperte militari venne caricato su un aereo, che atterrò a Ciampino il 14 aprile 1994. Per portarli poi a Verona, vennero fatti sedere in braccio ai passeggeri di un volo civile. «Feci l’appello dal telefono di casa e venne diffuso con l’altoparlante in aeroporto - spiega don Roberto Lombardi, tra i protagonisti della vicenda e all’epoca responsabile della Pastorale universitaria -: non c’erano soldi per i biglietti dei bambini e per non pagare dovevano occupare il posto con un adulto. Ventuno passeggeri si fecero subito avanti».Gli altri 20 orfani arrivarono all’aeroporto di Ghedi alla mezzanotte del 15 aprile, trasportati con un Dc-9 dell’Aeronautica militare e poi riuniti con i compagni.” In una gara di solidarietà, che vide coinvolte quasi 200 persone e le istituzioni locali, gli orfani trovarono ospitalità nell’ex asilo di Castenedolo per quasi due anni. Dopo che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e la Croce Rossa confermarono l’impossibilità di far rientrare gli orfani in Rwanda, causa la precaria situazione esistente nel Paese, e nonostante l’insistenza delle autorità ruandesi per il loro rientro, la magistratura italiana dispose l'affidamento dei bambini a famiglie bresciane, che nella maggior parte dei casi poi li adottarono. Diciassette ruandesi restarono con famiglie di Castenedolo, gli altri furono adottati in provincia. Uno dei bambini è stato adottato da don Roberto Lombardi cofondatore dell’associazione Museke: un caso eccezionale, considerando la sua condizione di prete e di single. Nel 2001, l’ambasciatore ruandese a Bruxelles tornò a chiedere, in linea con le politiche governative in materia,  il rimpatrio dei minori, ma il caso si chiuse ancora prima di aprirsi; il decreto di adozione fu ritenuto inappellabile stante che i bambini erano tutti ormai cittadini italiani e dalle indagini fatte in Rwanda non risultavano avere parenti stretti disponibili o in grado di provvedere al loro futuro. Oggi quei 41 bambini si ritrovano una volta all'anno: alcuni di loro sono laureati, altri hanno un lavoro stabile, altri sono ancora alla ricerca della loro strada, altri hanno costruito la loro famiglia. Tutti loro onorano la memoria del loro passato e delle loro origini e, nel periodo natalizio, siedono allo stesso tavolo per ricordare, insieme.