Alla vigilia del viaggio in Africa di papa Francesco, in Sud Sudan e nella R.D. del Congo, forse il paese al mondo che conserva le maggiori ricchezze minerarie, torna di attualità un punto dell’enciclica Fratelli tutti, a suo tempo non particolarmente trattato dai commentatori. Ci riferiamo al paragrafo 124 della terza enciclica di papa Francesco, che così recita: “La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».” E' di tutta evidenza come una simile affermazione assuma risvolti particolarmente rilevanti in un continente particolare come l'Africa. Se, infatti, in altri continenti, dove gli Stati hanno confini storicamente consolidati e nessuno oserebbe avanzare rivendicazioni di tipo territoriale o sulle ricchezze altrui, questa tesi non dovrebbe suscitare particolare interesse, non sembra si possa dire altrettanto se riferita alla realtà africana. L'artificiosità di quasi tutti i confini dei Paesi africani, frutto del processo di decolonizzazione della metà del secolo scorso, la grande disponibilità di risorse minerarie e fossili, o semplicemente di terreni coltivabili, diversamente distribuite fra i diversi Paesi, la debole struttura statuale di molti di questi Paesi: sono tutti elementi che potrebbero innescare un uso strumentale ed improprio dell'annuncio che ogni Paese è anche dello straniero nel senso che la destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Non è sicuramente azzardato ipotizzare che un simile principio possa essere agevolmente brandito da diversi governi come giustificazione per dare sfogo ai propri rivendicazionismi nei confronti di vicini più beneficiati da madre natura, in termini di ricchezze naturali e di spazi. Ne scaturirebbe una serie infinita di dispute di confine, con inevitabili risvolti militari, così da portare in breve tempo a una sostanziale riconfigurazione della carta politica del continente. Si pensi per un attimo a quale destino andrebbe incontro l'area del Kivu, teatro in questi mesi di una vera e propria escalation militare di un conflitto che si trascina da almeno un ventennio. La regione del Kivu è un territorio dalle immense ricchezze minerarie, facente parte di uno Stato, la Repubblica democratica del Congo, con una densità abitativa estremamente contenuta di 39 abitanti per kilometro quadrato, a fronte di quella dei Paesi vicini: 195 dell'Uganda e 495 del Rwanda. In questa area da oltre un ventennio si confrontano, tra scontri e violenze, diversi protagonisti, dai padroni della guerra locali ai Paesi confinanti, Rwanda e Uganda in primis, tutti ben decisi a non mollare la presa sul ricco forziere congolese. Già in passato era stata avanzata l'ipotesi da esponenti dell'amministrazione americana di arrivare a una vera e propria spartizione del Kivu tra i vari paesi confinanti, obiettivo non troppo nascosto del Rwanda e dell'Uganda. Tale idea fu però accantonata per non creare un pericoloso precedente che avrebbe innescato una corsa di diversi Paesi africani alla revisione dei confini, con conseguente destabilizzazione, in breve tempo, dell'intero continente africano. Ma ora, alla luce di questo importante imprimatur, siamo sicuri che qualcuno non colga l'occasione per dare una base "ideale" ai propri progetti espansionistici?
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