"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


lunedì 29 maggio 2017

Wallah - Je te jure: il documentario double face

Strana la sorte toccata al documentario, Wallah- Je te jure, diventato in poco tempo una sorta di manifesto a favore dell'immigrazione, senza farsi troppe domande, specie se presentazione e dibattito che ne segue la proiezione, nei numerosi incontri programmati sul territorio per dibattere il tema delle migrazioni, sono fatte da operatori del settore connesso all'accoglienza.Il  documentario, come recita la scheda di presentazione, " racconta le storie di uomini e donne in viaggio lungo le rotte migratorie dall'Africa all'Italia, che dall'Africa Occidentale passano per il Niger e la Libia, fino a raggiungere l’Italia. Villaggi rurali del Senegal, stazioni degli autobus e "ghetti" di trafficanti in Niger, case e piazze italiane fanno da sfondo ai viaggi coraggiosi intrapresi da queste persone, dalle conseguenze spesso drammatiche. L'Europa è una meta da raggiungere ad ogni costo, "Wallah", lo giuro su Dio. Ma c'è anche chi, provato dalla strada, riprende la via di casa". Diretto dal regista  Marcello Merletto, Wallah è stato prodotto  dall’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni-Niger con la finalità di informare in maniera efficace  i futuri migranti quali siano i rischi di mettersi in viaggio verso l’Europa. Il documentario  è uscito in 2 diversi formati:uno di  circa un’ora  è la versione per noi occidentali, usata nelle serate di dibattito sull'immigrazione, l'altro della durata di 23 minuti  viene mostrato nei paesi di provenienza dei migranti ed è visibile cliccando nell'immagine qui sotto.


L'edizione internazionale rappresenta in maniera equilibrata e corretta i rischi dei viaggi e il futuro tutt'altro che roseo che attende i migranti in Italia: del deludente approdo nel nostro paese  di questi giovani abbiamo come unica testimonianza di "concreto" inserimento   un venditore di braccialetti all'ombra del castello Sforzesco di Milano e un ragazzo che viene avviato agli studi universitari ( risultato che avrebbe potuto ottenere anche senza salire sui barconi). Al contrario, una soluzione possibile alle inevitabili delusioni di chi approda in Italia viene prospettata nel ritorno al paese di origine, come nel caso di quella famiglia che, rientrata in patria, mette in piedi un impresa per la lavorazione del pesce.
L'ultima inquadratura dell'edizione africana
 Pure nella corretta rappresentazione del fenomeno migratorio, che non nasconde tutti i problemi annessi, il documentario è utilizzato in Italia, in modo particolare nelle parrocchie, quale strumento di dibattito a supporto di discorsi di accoglienza dei nuovi migranti, senza minimamente interrogarsi neppure sugli aspetti critici che lo stesso documentario non manca, con molta onestà intellettuale, di mettere in evidenza. 
Eppure, se i partecipanti alle riunioni di questo tipo avessero modo di guardare l'edizione per i paesi d'origine dei migranti vedrebbero un film il cui unico chiaro messaggio, riassunto nell'inquadratura finale, è quello di non intraprendere il viaggio verso l'Italia dove quei giovani non troveranno il lavoro che cercano. Come  autorevolmente affermato, in un appello ai giovani, dai vescovi africani - "non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri Paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America”; appello che in Italia     è passato stranamente e colpevolmente sotto silenzio.
E allora perchè non dirlo e parlarne?
Perchè non dire che chi è pronto ad accoglierti, grazie alle risorse attinte al bilancio dello Stato, non è poi in grado di trovarti un posto di lavoro che ti dia dignità: perchè "non è un ufficio di collocamento" e, forse, perchè in questo momento in Italia il lavoro dignitoso, che non sia essere sfruttati come schiavi nei campi, non c'è?

sabato 27 maggio 2017

Consacrazione episcopale del nuovo nunzio in Rwanda

Un momento dell'ordinazione episcopale 
Si è tenuta oggi nella Cattedrale di Lowicz  in Polonia la cerimonia  di ordinazione episcopale di mons. Andrew Józwowicz, nominato da papa Francesco il 18 marzo scorso nuovo nunzio apostolico in Rwanda. La cerimonia è stata presieduta dal segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin.
In un’intervista rilasciata ieri al portavoce della conferenza episcopale polacca, l'Arcivescovo Andrzej Józwowicz aveva espresso l’auspicio di poter essere “un buon ambasciatore della Santa Sede e la migliore testimonianza per la Polonia, un paese di cui sono molto orgoglioso e che amo” confidando di poter essere colui che "porta la pace, la riconciliazione, la Buona Novella a tutti, specialmente a coloro che vivono ai margini della vita umana, come ricordato da Papa Francesco". 

domenica 21 maggio 2017

Per Medjugorje una soluzione come quella di Kibeho?

La risposta che la Chiesa potrebbe dare alle apparizioni a Medjugorje potrebbero ricalcare, per certi versi, quanto accaduto per le apparizioni di Kibeho. E’ quanto sembra trasparire da alcune dichiarazioni dell'arcivescovo di Varsavia-Praga, Henryk Hoser, inviato del Papa a Medjugorje, apparse venerdì scorso su Avvenire , in cui paragonava le apparizioni bosniache a quelle avvenute in Rwanda tra il 1981 e il 1989, lasciando intendere la possibile  scelta di una medesima soluzione per avvenimenti molto simili. Lo sostiene La Bussola quotidiana in un ampio articolo a firma Benedetta Frigerio in cui vengono sottolineate le molte   analogie tra le due apparizioni e il fatto  "quanto meno singolare che il contenuto dei messaggi mariani e la data dell’inizio delle apparizioni siano del tutto simili. Ma soprattutto impressiona che, anche in questo caso, il messaggio della Vergine sia stato, prima ostacolato (anche da religiosi e prelati) e poi, quando il genocidio si verificò realmente, accettato solo in parte". Per leggere l'interessante analisi della Frigerio clicca qui.

venerdì 19 maggio 2017

La tradizionale intervista di Jeune Afrique a Kagame

L'ultima copertina di Jeune Afrique 
“Il giornalismo è scrivere ciò che qualcun altro non vuole che sia scritto. Tutto il resto sono pubbliche relazioni”. L'icastica definizione dello scrittore George Orweel torna alla mente quando si leggono le interviste  che Jeune Afrique dedica periodicamente ai leader africani.  Anche  l'annuale intervista che Jeune Afrique  ha dedicato nel suo ultimo numero al  presidente Paul Kagame non si discosta molto da questo cliché di intervista pettinata. Qui il testo riproposto da The New Times in inglese
e qui l'originale in francese.
L'occasione dell'intervista è fornita dalle prossime  scontatissime elezioni presidenziali, programmate per il 4 agosto,  che hanno come unica incognita, secondo Jeune Afrique, la percentuale dei voti con cui Kagame si imporrà sugli attuali altri candidati. Allo stato, tre risultano essere i candidati che si confronteranno con Kagame: Frank Habineza, leader del Partito Democratico verde ( solo partito di opposizione autorizzato negli ultimi quattro anni)  l'unico che può sperare di raggiungere il 5 per cento dei voti;Philippe Mpayimana, un ex giornalista sconosciuto al grande  pubblico, tornato di recente in patria da Parigi dove si trovava in volontario esilio e Diane Rwigara, giovane figlia di un uomo d'affari  una volta  vicino al potere e morto in un incidente sospetto nel 2015, la cui candidatura è stata seriamente compromessa dalla pubblicazioni abusiva di sue immagini private in pose sconvenienti. 

mercoledì 10 maggio 2017

Compenso da star a Obama per esprimere l'augurio che la fame nel mondo sparisca

 "Il cambiamento climatico continuerà ad avere un impatto sul nostro mondo, produrre energia sarà sempre più difficile e anche produrre cibo sarà sempre più difficile. Tutto questo avrà ripercussioni, molti rifugiati arrivano nei nostri paesi anche perché nei loro Paesi esiste un problema di derrate alimentari. Ottocento milioni di persone in tutto il mondo soffrono di malnutrizione, e le migrazioni non sono causate solo dalle guerre, ma anche dalla fame, che in certi casi è conseguenza proprio del cambiamento climatico". 
Per dare corpo a  questi concetti al Seeds&Chips, il summit sulla food innovation, tenutosi in questi giorni a Milano, l'ex presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, avrebbe percepito un compenso che dovrebbe aggirarsi, anche se la cifra non è stata ufficializzata, intorno ai 400 mila dollari. In linea con quanto  Obama, alla sua prima uscita da ex presidente, aveva percepito parlando a Wall Strett: 400mila dollari. Per gli organizzatori una bazzeccola tenuto conto che   in 3.500 hanno sborsato fino a 850 euro per ascoltare il key note speech dell'ex inquilino della Casa Bianca. Biglietto che dava diritto a partecipare anche alle altre sessioni del summit.
Per gli 800 milioni di persone che ancora soffrono la fame sarà consolante sapere che  pensando proprio a ognuno di loro, Obama ha comunque espresso l'auspicio che " la fame nel mondo sparisca!»

venerdì 5 maggio 2017

Su Civiltà Cattolica un gesuita rwandese fa memoria ( un po' di parte) del genocidio

Nell’ultimo numero de La Civiltà Cattolica appare un articolo del gesuita rwandese Marcel Uwineza dal titolo Fare memoria del genocidio in Rwanda-Una testimonianza, di cui qui di seguito riportiamo l’abstract reso disponibile dalla stessa rivista dei gesuiti.
“«Ogni ferita lascia una cicatrice, e ogni cicatrice parla di una storia: ci ricorda che siamo vivi». Mai come oggi è necessaria la saggezza di questo detto ruandese, soprattutto per quanto riguarda la tragica storia del Rwanda, che ha portato al genocidio perpetrato contro i tutsi e alle cicatrici che ha prodotto in tutto il Paese.
 Il genocidio del 1994 si radicava nelle divisioni «etniche» tra gli hutu, i tutsi e i twa, che si erano intensificate nell’epoca coloniale (1890-1962) fino a sfociare in una conclusione atroce. Il genocidio è stato infatti il culmine di un’esclusione etnica di lunga data. Durante il genocidio — che si è perpetrato nell’arco di circa tre mesi, a partire dall’aprile di quell’anno — sono stati uccisi quasi un milione di tutsi e di hutu moderati, ossia coloro che si sono opposti alla pulizia etnica. Alla fine il Paese era in rovina: cadaveri dappertutto, innumerevoli le vedove, gli orfani e i rifugiati. Ogni ruandese è rimasto ferito, quale che fosse la sua appartenenza «etnica», sebbene le ferite siano state di diversa gravità. I ruandesi non devono lasciarsi sopraffare dalle memorie non riconciliate, nemmeno in teologia, ma piuttosto devono aver fede in esse e con esse parlare di Dio. Ricordare significa esserci, ma anche agire e continuare ad agire per costruire una società in cui queste operazioni mostruose siano impensabili. La memoria svolge infatti varie funzioni importanti. In primo luogo, ci spinge ad andare avanti e a stabilire forti legami tra ricordi e verità, perché le memorie selettive o false possono diventare in futuro ideologie oppressive. In secondo luogo, l’appropriazione critica della memoria consente all’umanità di non perdere ciò a cui la maggior parte delle persone tiene di più in assoluto: la dignità della persona umana sostenuta dall’amore del prossimo, perfino quando dimostra di essere un nemico. In terzo luogo, la memoria rafforza la fede della gente nell’andare avanti nonostante sofferenze insensate. In quarto luogo, la memoria ci aiuta a tenere presente il fatto che tutti cadiamo e abbiamo bisogno di perdono. In quinto luogo, rifiutare i ricordi di ciò che abbiamo fatto o di ciò che altri hanno fatto a noi equivale in pratica a rifiutare la nostra vera identità. Infine, la memoria della sofferenza conduce alla solidarietà. Ci sono dunque tanti elementi per poter affermare che la memoria è di importanza decisiva per il futuro del Rwanda: si tratta anche di un imperativo teologico. Cosa sta facendo la Chiesa ruandese in tale direzione?”
Leggendo l’intero articolo, ci si imbatte in una testimonianza che ripercorre l’angosciante esperienza personale del pastore che nel genocidio ha perso parte dei suoi familiari e che arriva  a perdonare, in un incontro drammaticamente travagliato, uno degli assassini dei suoi fratelli e di sua sorella. Ricorda tutto l’orrore di quei cento giorni che hanno lasciato tanti cadaveri sulle strade rwandesi e ora “ossa inaridite” che ancora oggi si incontrano nei vari memoriali del genocidio di cui è costellato il paese. Eppure nella drammaticità della testimonianza di quella che può essere definita una riconciliazione personale,  si fatica a cogliere nell'articolo una convinta e partecipata apertura a una riconciliazione più ampia, che coinvolga la  comunità rwandese nella sua interezza, vincitori e vinti, vittime e carnefici, governanti e governati.