"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


venerdì 19 maggio 2017

La tradizionale intervista di Jeune Afrique a Kagame

L'ultima copertina di Jeune Afrique 
“Il giornalismo è scrivere ciò che qualcun altro non vuole che sia scritto. Tutto il resto sono pubbliche relazioni”. L'icastica definizione dello scrittore George Orweel torna alla mente quando si leggono le interviste  che Jeune Afrique dedica periodicamente ai leader africani.  Anche  l'annuale intervista che Jeune Afrique  ha dedicato nel suo ultimo numero al  presidente Paul Kagame non si discosta molto da questo cliché di intervista pettinata. Qui il testo riproposto da The New Times in inglese
e qui l'originale in francese.
L'occasione dell'intervista è fornita dalle prossime  scontatissime elezioni presidenziali, programmate per il 4 agosto,  che hanno come unica incognita, secondo Jeune Afrique, la percentuale dei voti con cui Kagame si imporrà sugli attuali altri candidati. Allo stato, tre risultano essere i candidati che si confronteranno con Kagame: Frank Habineza, leader del Partito Democratico verde ( solo partito di opposizione autorizzato negli ultimi quattro anni)  l'unico che può sperare di raggiungere il 5 per cento dei voti;Philippe Mpayimana, un ex giornalista sconosciuto al grande  pubblico, tornato di recente in patria da Parigi dove si trovava in volontario esilio e Diane Rwigara, giovane figlia di un uomo d'affari  una volta  vicino al potere e morto in un incidente sospetto nel 2015, la cui candidatura è stata seriamente compromessa dalla pubblicazioni abusiva di sue immagini private in pose sconvenienti. 

Con tali competitors e con i risultati di questi anni di governo  per Jeune Afrique non ci sono dubbi su chi continuerà a governare il Rwanda "diventato il simbolo di un'Africa di succeso"  dove  " i cittadini della diaspora  che scelgono di tornare sono in numero superiore di  quelli che decidono di emigrare". Non mancano però aspetti negativi, unica sottolineatura minimamente critica in tutta l'intervista,  come  "un reddito annuo pro capite di $ 700, un bilancio dipendente dagli aiuti stranieri per il  30 per cento, uno stringente controllo della  libertà di espressione e di associazione che comporta a volte una mancanza di vitalità nella politica e vita culturale".
Nell'intervista Kagame sembra escludere che dopo il prossimo settenato possa ricandidarsi, anche se alla luce della riforma costituzionale potrebbe legittimamente aspirare a governare fino al 2034. Per questo bisognerà cominciare a pensare a chi verrà dopo. 
Sulla mancanza di una opposizione che si riduce al solo Green party, Kagame non si dà troppo affanno, respingendo al mittente le lezioni sulla libertà che l'Occidente vorrebbe imporre con "disprezzo ed arroganza" a paesi come il Rwanda. E l'intervistatore si guarda bene dal chiedere notizie sulla più nota delle oppositrice, Victoire Ingabire, che la stessa Jeune Afrique si era in passato premurata di demolire.  Dopo aver sottolineato i buoni risultati sul fronte della riconciliazione post '94, Kagame parla del recente incontro con papa Francesco  di cui ha apprezzato la sincerità, anche se reputa che ci debba essere ancora qualche ulteriore passo formale da adempiere per "la conclusione del triste capitolo" dei rapporti con il Vaticano. Nato in una famiglia cattolica, Kagame si reputa un credente con un buon rapporto con tutte le religioni, tenuto conto che "la fede è un fattore positivo nella costruzione di una società". Ricordati i recenti interventi per sgominare sul nascere una cellula jihaidista in Rwanda, il presidente passa a parlare di rapporti con Israele, Palestina e delle prospettive che si dischiudono nei non facili rapporti con la Francia, dopo l'elezione del nuovo presidente francese Emmanuel Macron. Decisamente sorprendente risulta il giudizio sulla nuova amministrazione americana: "Donald Trump e la sua amministrazione rappresentano per me una rottura, una sveglia, un ondata di cambiamento in una politica estera che stava diventando informe. Credo che il fenomeno Trump in senso globale sia una buona notizia. Egli sta scuotendo America, Europa, Asia, Africa. Indipendentemente dai risultati, l'ambiente geopolitico doveva essere ripristinato e, se questo serve come un'opportunità per noi africani per ripensare l'efficacia degli aiuti e di trovare un altro modo, è il benvenuto. Ma è troppo presto per trarre conclusioni per l'amministrazione del Trump e la sua politica in Africa". Dopo aver accennato al progetto di riforma dell'Unione Africana di cui è responsabile, Kagame dedica parole misurate alla crisi del Burundi dalla quale, a parole, si vuole tenere " a distanza", senza far venir meno l'aiuto ai profughi che numerosi si sono riversati in Rwanda. Anche nei rapporti con la Repubblica democratica del Congo, Kagame, dopo aver riconfermato la bontà della scelta del passato di sostenere Kabila contro Mobutu, tende a riportare il ruolo del Rwanda  a un basso profilo, forse non storicamente fondato, sottolineando come gli attuali  rapporti siano improntati a "una cooperazione in buona fede" e declinando ogni responsabilità sulla situazione che interessa il Kivu.L'intervista si conclude con un autoritratto di alto profilo "sono idealista; voglio il meglio, anche se il meglio non è necessariamente realizzabile. Ma, allo stesso tempo, sono realistico e pragmatico. Sono consapevole dei miei limiti..... so quello che posso e non posso fare, pur perseguendo l'impossibile. Questo è il mio modo di essere e quello dei  ruandesi".

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