Nell’ultimo numero de La Civiltà Cattolica appare un
articolo del gesuita rwandese Marcel Uwineza
dal titolo Fare memoria del genocidio in Rwanda-Una testimonianza, di cui qui
di seguito riportiamo l’abstract reso disponibile dalla stessa rivista dei
gesuiti.
“«Ogni ferita lascia una cicatrice, e ogni cicatrice parla
di una storia: ci ricorda che siamo vivi». Mai come oggi è necessaria la
saggezza di questo detto ruandese, soprattutto per quanto riguarda la tragica
storia del Rwanda, che ha portato al genocidio perpetrato contro i tutsi e alle
cicatrici che ha prodotto in tutto il Paese.
Il genocidio del 1994
si radicava nelle divisioni «etniche» tra gli hutu, i tutsi e i twa, che si
erano intensificate nell’epoca coloniale (1890-1962) fino a sfociare in una
conclusione atroce. Il genocidio è stato infatti il culmine di un’esclusione
etnica di lunga data. Durante il genocidio — che si è perpetrato nell’arco di
circa tre mesi, a partire dall’aprile di quell’anno — sono stati uccisi quasi
un milione di tutsi e di hutu moderati, ossia coloro che si sono opposti alla
pulizia etnica. Alla fine il Paese era in rovina: cadaveri dappertutto,
innumerevoli le vedove, gli orfani e i rifugiati. Ogni ruandese è rimasto
ferito, quale che fosse la sua appartenenza «etnica», sebbene le ferite siano
state di diversa gravità. I ruandesi non devono lasciarsi sopraffare dalle
memorie non riconciliate, nemmeno in teologia, ma piuttosto devono aver fede in
esse e con esse parlare di Dio. Ricordare significa esserci, ma anche agire e
continuare ad agire per costruire una società in cui queste operazioni
mostruose siano impensabili. La memoria svolge infatti varie funzioni
importanti. In primo luogo, ci spinge ad andare avanti e a stabilire forti legami
tra ricordi e verità, perché le memorie selettive o false possono diventare in
futuro ideologie oppressive. In secondo luogo, l’appropriazione critica della
memoria consente all’umanità di non perdere ciò a cui la maggior parte delle
persone tiene di più in assoluto: la dignità della persona umana sostenuta
dall’amore del prossimo, perfino quando dimostra di essere un nemico. In terzo
luogo, la memoria rafforza la fede della gente nell’andare avanti nonostante
sofferenze insensate. In quarto luogo, la memoria ci aiuta a tenere presente il
fatto che tutti cadiamo e abbiamo bisogno di perdono. In quinto luogo,
rifiutare i ricordi di ciò che abbiamo fatto o di ciò che altri hanno
fatto a noi equivale in pratica a rifiutare la nostra vera identità. Infine, la
memoria della sofferenza conduce alla solidarietà. Ci sono dunque tanti
elementi per poter affermare che la memoria è di importanza decisiva per il
futuro del Rwanda: si tratta anche di un imperativo teologico. Cosa sta facendo
la Chiesa ruandese in tale direzione?”
Leggendo l’intero articolo, ci si
imbatte in una testimonianza che ripercorre l’angosciante esperienza personale
del pastore che nel genocidio ha perso parte dei suoi familiari e che
arriva a perdonare, in un incontro
drammaticamente travagliato, uno degli assassini dei suoi fratelli e di sua sorella. Ricorda
tutto l’orrore di quei cento giorni che hanno lasciato tanti cadaveri sulle
strade rwandesi e ora “ossa inaridite” che ancora oggi si incontrano nei vari
memoriali del genocidio di cui è costellato il paese. Eppure nella drammaticità
della testimonianza di quella che può essere definita una riconciliazione
personale, si fatica a cogliere nell'articolo una convinta e partecipata apertura a una riconciliazione più ampia, che coinvolga la comunità rwandese nella sua interezza, vincitori e vinti, vittime e carnefici, governanti e governati.
Non una parola viene dedicata, nello scritto di padre Marcel, ai tanti altri morti di
cui non restano neppure quelle "ossa inaridite", perché i loro corpi sono stati
inceneriti o
non si trovano, come quello di padre Joaquim Vallmajo. Non una parola per i tanti confratelli che nei
tre anni di guerra civile, di cui i 100
giorni del 1994 sono stati la macabra conclusione, hanno perso la vita per mano
degli altri combattenti. La stessa breve e sintetica ricostruzione storica che
appare all’inizio dell’articolo fornisce a chi non conosce la storia rwandese
un quadro incompleto, forse fuorviante, della stessa; per esempio quando si
parla del genocidio del 1994 a danno dei tutsi
come del culmine “di un’esclusione etnica di lunga data”, non facendo
alcuna menzione del periodo della monarchia tutsi e della sua gestione del potere protrattosi per l’intero periodo coloniale, in cui forse vanno storicamente ricercate le origini dei futuri drammi che hanno sconvolto il paese.Tacere poi che il genocidio è stato preceduto da una guerra civile
esplosa nell’ottobre del 1990 e protrattasi fino appunto al 1994, oltre a non fornire un corretto inquadramento storico, serve forse a non
dover parlare delle atrocità che, storicamente, vengono compiute in una qualsiasi guerra civile dalle parti in campo, comprese anche quelle che escono
vincitrici dal confronto e poi scrivono la storia. “ La sfida della convivenza” e della riconciliazione non passa solo
attraverso la richiesta di perdono da parte della Chiesa rwandese piuttosto che
del Papa, come sembra ipotizzare padre Marcel Uwineza
quando ne fa “momenti importanti per la
guarigione della memoria”, ma anche nella riscoperta da parte di tutti e non solo di una parte, come sembra sempre supporre l'articolista, della “verità come dovere
di giustizia” perchè “ una memoria incompleta o falsata non soltanto lascia il conflitto
aperto , ma lo rende più acuto”. Allora per chiudere una stagione di sangue, quale è stata quella della guerra civile e del genocidio, per aprirsi a una riconciliazione vera tra tutti i rwandesi, “ la capacità di riconoscere e chiedere perdono per gli errori in circostanze del genere" dovrebbe diventare un impegno di tutti, indistintamente, i protagonisti della recente storia rwandese e non solo della Chiesa.
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