Perché dobbiamo
difendere gelosamente il Kinyarwanda, è il titolo di un interessante
intervento di David Nkusi, uno studioso di patrimonio culturale, comparso sull’odierna
edizione de The New Times. Partendo dalla costatazione che “il linguaggio è probabilmente la
componente più importante della cultura che normalmente è trasmessa per via
orale, l’autore ricorda come “il Rwanda, a differenza di molti paesi in Africa,
sia uno stato unito sin dal periodo pre-coloniale, popolato da
"Banyarwanda" che condividono un’unica lingua e un unico patrimonio
culturale”. Questi due fattori vitali sono essenziali perché il Rwanda possa, attraverso una
cultura condivisa, superare i traumi dei conflitti passati e avviare un processo di ricostruzione e sviluppo
della società rwandese, non solo su basi politiche ed economiche, ma facendo riferimento anche ad elementi
intellettuali, emotivi e morali. “ La salvaguardia di tutti gli aspetti del patrimonio
culturale in questo paese, sia materiali che immateriali (musei, monumenti,
siti archeologici, musica, arte, lingua e artigianato tradizionale), è di
particolare importanza in termini di rafforzamento della identità culturale in
un senso di integrità nazionale “.Infatti, per dare un senso di continuità
storica all’indentità dei rwandesi, secondo l'autore andrà perseguito questo legame tra
lingua e cultura così da favorire, attraverso diverse dinamiche, “il dialogo e
l'inclusione sociale, che ci rende quello che siamo, consapevolmente, di
generazione in generazione”. Un intervento forse non totalmente in sintonia (chissà se il
caporedattore che ha passato il pezzo se ne è reso conto) con quello che sta accadendo in Rwanda, dove
molte scelte della nuova dirigenza sembrano andare in senso opposto a quanto
auspicato dall’articolista. Basti pensare al modo in cui è stata imposta l’adozione
dell’inglese, che ha quasi ghettizzato chi sa parlare solo Kinyarwanda e, all’opposto,
non ha stimolato molti dei fuoriusciti rientrati in Rwanda ad apprendere il
Kinyarwanda che molti non conoscono ( lo
confessano spesso anche molti giornalisti de The New Times nei loro pezzi in
inglese) o parlano a fatica, come nel caso, si dice, di qualche esponente ai
vertici della politica rwandese. Sull’argomento, già trattato in
passato, rinviamo in particolare al post del 22 dicembre
2010 e del 2 gennaio 2011.
Si pensi anche al cambiamento dei vecchi
nomi di molte città rwandesi, piuttosto che della toponomastica della
capitale.D’altronde, a tutte le latitudini e in ogni tempo è sempre
stata forte la tentazione per le nuove classi politiche assurte al potere di fare
tabula rasa del passato, anche se va detto che la storia non sempre ha premiato tale scelta.
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