E' stato riproposto alcune sere fa su La 7 il film "Ghandi" del regista Richard Attenborough, che ripercorre la vita del profeta della non violenza il Mahatma Gandhi. E' stato particolarmente coinvolgente vedere la parabola terrena di questo piccolo grande uomo, con una parentesi anche africana, che con la forza della sua intuizione di lotta politica non violenta è riuscito a piegare il grande e potente impero britannico, ottenendo l'indipendenza per l'India. A far riflettere è stata una scena a cui si assiste nella parte finale del film. Ottenuta l'indipendenza, nel paese la comunità indù e quella mussulmana si scontrano violentemente, macchiandosi di gravi crimini di sangue, per definire i rispettivi ambiti di potere; la soluzone sarà la costituzione del Pakistan come paese a maggioranza musulmana. Stremato dal digiuno che aveva affrontato per far cessare gli scontri, Gandhi riceve una delegazione che lo implora di porre termine a questa sua forma di protesta che rischia di portarlo alla morte. Un gruppo di indù, fra i più facinorosi, depone ai suoi piedi le armi - nel film, quello che si fa portavoce impugna un machete- promettendo di por fine agli scontri. Tra i componenti di questo gruppo vi è un indù che, implorando il Mahatma di riprendere a mangiare, gli confessa di aver ucciso un bambino musulmano in maniera atroce, sbattendogli cioè la testa contro il muro, per vendicarsi dell'uccisione di suo figlio per mano dei mussulmani. Gandhi suggerisce a questo omicida reo confesso che per ottenere il perdono di Dio si faccia carico di adottare un bambino orfano musulmano, impegnandosi ad allevarlo come un figlio e, soprattutto, nella sua fede musulmana.
All'indomani, gli scontri fra le due comunità cesseranno e, qualche giorno dopo, Gandhi verrà ucciso da un giovane estremista indù.
Il suo messaggio gli sopravvive senza conoscere limiti di tempo e di luogo.
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