In
un recente articolo dal titolo Povertà, migrazioni, sviluppo: un nesso problematico, apparso sul sito Open Migration, l'Ong sostenuta dall'Open
Society del chiacchierato finanziere, George Soros, il prof. Maurizio Ambrosini, docente di
Sociologia delle migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, perviene ad
alcune interessanti conclusioni, meritevoli di qualche riflessione. La tesi di
fondo, supportata da un'articolata analisi, sostiene che non sia la povertà a dare origine ai
flussi migratori, in quanto chi è poverissimo non riesce a partire non
disponendo del denaro necessario a finanziarsi il viaggio. I migranti, in
particolare quelli africani, provengono non dai paesi più poveri del
continenti, ma da quelli dove si è creata una classe di persone che sono uscite
dallo stato di reale povertà e possono disporre dei mezzi per tentare di
migliorare la propria situazione cercando fortuna in Occidente: "i
migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di
chi rimane". Dopo aver messo in dubbio che le migrazioni internazionali
possano essere alimentate dai cosiddetti “rifugiati ambientali” vittime dei
cambiamenti climatici, "spiegazione affascinante della mobilità umana, e
anche politicamente spendibile", ma con scarsi riscontri fattuali,
Ambrosini passa a dimostrare come gli aiuti internazionali allo sviluppo non
risolvano il problema. Prima di tutto, perchè "se gli immigrati non
arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in
posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più
bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie
anziché quelle più povere".In secondo luogo, perchè "gli studi
sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa
aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone
che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere
inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di
realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze,
soprattutto agli inizi. ...Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano,
finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che
regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi
di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano
meno sviluppati."I dubbi sull'efficacia degli aiuti come contrasto
all'emigrazione si alimentano anche dal ruolo delle rimesse degli emigranti
come fattore incentivante all'emigrazione. Le rimesse rivestono, infatti, un
ruolo importante sia a livello macroeconomico, "26 paesi del mondo hanno
un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento" mentre,
"a livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle
famiglie,..... soldi che consentono di
migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie
degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi
che pure non mancano". Sulla base di questi presupposti l'autore perviene
a queste conclusioni. "Dunque le politiche di sviluppo dei paesi
svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è
un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami,
scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra
paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo
delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva
nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in
cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei
paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro
conto. Da ultimo, il presunto buon senso
dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il
bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati".
Sgomberiamo immediatemente il campo dall'ormai logoro
richiamo al bisogno da parte dell'Italia del lavoro degli immigrati per
giustificare un’immigrazione priva di controlli. Se avesse un reale fondamento,
di cui si può legittimammente dubitare a fronte di circa 4 milioni di
disoccupati e inoccupati nazionali, il problema potrebbe essere immediatamente
risolto con la pianificazione di flussi regolari di migranti, chiamati da parte di datori di lavoro
nazionali, come avveniva prima della crisi del 2007 quando erano concordati con
diversi Paesi africani contigenti annuali di flussi in entrata di lavoratori
extracomunitari. Ai barconi si sostituirebbero viaggi regolarmente autorizzati
e programmaticamente pianificati. Ma così crollerebbe tutto il modello dell'accoglienza e quello che ci sta dietro. Una seconda osservazione che emerge dal
contributo è che i migranti economici che approdano sulle nostre coste sono persone meno bisognose di quelle che restano nei Paesi di origine. Ne consegue che il modello dell'accoglienza, perorato da Open Migration, dimentichi di proposito coloro che, non avendone i mezzi, non sono nelle condizioni, volendolo, di mettersi in viaggio verso l'Europa. Si presta attenzione a chi compare nelle cornache dei telegiornali e
non a chi non ha voce, distogliendo altresì importanti risorse finanziarie alla
cooperazione allo sviluppo perpetrando così una profonda ingiustizia nei confronti degli ultimi. E' questo un aspetto sottovalutato non solo
dall'autore e da Open Migration, ma anche, sorprendentemente, dal mondo
dell'accoglienza facente riferimento alla Chiesa cattolica.
Detto questo, ci
pare, ma potremmo sbagliarci, che l'autore limitandosi a parlare del modello
dell'"aiutiamoli a casa loro"
quale inefficace strumento di governo o, meglio, di contrasto dei flussi
migratori, evidenziandone correttamente alcune fondate debolezze in questa sua specifica
applicazione, eviti volutamente di trattarne le potenzialità quale strumento di
cooperazione allo sviluppo scevro da incoffessabili secondi fini.In questo
modo, la politica degli aiuti, non finalizzati al contrasto alle migrazioni,
viene espulsa dal dibattito sul fenomeno migratorio, lasciando campo libero a
un'open migration, come enunciata nella mission della Ong sul cui sito il
lavoro è stato pubblicato. Ma, l'operazione di ridurre l'aiutiamoli a casa loro
quale mera misura di contrasto alle migrazioni significherebbe che al venir
meno del rischio "invasione", le politiche di cooperazione allo
sviluppo verrebbero automaticamente meno in quanto non più funzionali allo
scopo: l'Africa resterebbe abbandonata a se stessa.Per non parlare di quei Paesi che non essendo interessati ai fenomeni migratori non avrebbero ragioni per mettere in campo politiche di aiuto allo sviluppo. Manca nel contributo del prof. Ambrosini anche solo l'accenno che quell' “aiutiamoli a casa loro” potrebbe e dovrebbe essere declinato anche in
una diversa forma che si sostanzi nella creazione, nei Paesi destinatari degli aiuti
internazionali, di condizioni che consentano la costruzioni di realtà statuali
capaci di offrire ai propri cittadini prospettive tali che i padri reputino
realistica la possibilità per i propri figli di vivere dignitosamente nel
proprio Paese. E' quello che cerca di dimostrare il recente studio Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda, dove si documenta come gli aiuti abbiano espletato appieno la loro funzione originaria di motore allo sviluppo
di un Paese, capace di far rientrare in patria, all'indomani della tragedia del 1994, due milioni
di rifugiati in campi profughi, che mai avrebbero potuto e neppure voluto
raggiungere l'Europa, e mettere nelle mani di una governance capace gli
strumenti per far incamminare il Paese sulla via dello sviluppo. In ultima analisi, gli aiuti al Rwanda non hanno trovato applicazione secondo le finalità ipotizzate dal prof. Ambrosini, ma hanno pienamente dispiegata la loro efficacia nel disinnescare i fattori che avrebbero potuto favorire l'insorgere di flussi migratori, creando le condizioni per rendere concreto il diritto a non emigrare per i ruandesi.
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