La situazione del Kivu è ormai sull’orlo dell’ennesima esplosione, con i
suoi diversi protagonisti in campo: un
governo (quello congolese) assente e incapace di mantenere sotto controllo la
situazione, altri governi ( quelli rwandese e ugandese) interessati e attivi
spettatori attratti dalle immense ricchezze del sottosuolo e a tal fine aperti
a ogni possibile alleanza, i signori della guerra locali
pronti a offrire le proprie formazioni al miglior offerente pur di conservare
il proprio potere e tutelare i propri
interessi, multinazionali sfruttatrici voraci dei minerali locali pronte per il
proprio business a rinnegare principi e regole che nei propri paesi d’origine
mai avrebbero infranto, gruppi guerriglieri di profughi con velleitarie volontà
rivendicazioniste, ultimo non certo in ordine di importanza e
responsabilità un pletorico e costosissimo contingente Onu-Monusco incapace a
tutto. Un rimbalzarsi di accuse di atrocità tra i vari protagonisti che
arrivano ad indossare divise dei gruppi avversari pur di addossargliene le
colpe.Denunce di coinvolgimento del Rwanda cui hanno fatto seguito secche
smentite da parte delle autorità di Kigali. Sembra di trovarsi immersi nella
trama del libro Il canto della missione di John Le Carré, ambientato proprio in
questo contesto. Se ne stanno accorgendo le cancellerie mondiali, Usa e Unione
europea in primis, che non possono fare
a meno di raccogliere le denunce che da tempo stanno esprimendo esponenti della
società civile locale, senza peraltro andare oltre qualche dichiarazione di
circostanza, facendo ben attenzione a non scontentare le forze amiche in
campo.Ben più realisticamente i vescovi
della Provincia ecclesiastica di Bukavu, nell’est della Repubblica
Democratica del Congo (RDC), in un recente messaggio inviato alle autorità
politiche congolesi, parlano apertamente di “ indizi convergenti che evocano lo
spettro di una guerra dai contenuti e dai moventi ancora nascosti” auspicando
la prevenzione di conflitti generalizzati che si profilano all’orizzonte come
testimoniano le tensioni e le violenze
che vedono protagoniste le diverse forze in campo il cui sbocco finale sono guerre “di predazione interna ed
esterna”. Significativo è il richiamo anche agli appetiti che provengono
dall’esterno; è probabilmente qui il vero nocciolo della questione: le autorità
congolesi non hanno la forza di difendere i propri confini fin troppo
permeabili ad ogni tipo di infiltrazione dall’esterno. Se poi qualche
opinionista di Kigali, trattando l'argomento sulla stampa locale, trova l'occasione per prendersela con il Congresso di
Berlino del 1884/5 che, a suo dire, ha riportato il grande Rwanda di fine
ottocento ai confini attuali, privandolo, oltre che di altri territori,
soprattutto delle fasce del Congo orientale, appunto il Kivu di cui stiamo
parlando, nell'europeo riaffiora il ricordo di quando ottanta anni fa in Europa qualcuno cominciò a fare analoghi discorsi, nell’ignavia delle cancellerie del tempo. Sappiamo tutti come
andò a finire.
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