"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


lunedì 23 novembre 2009

Jambo Africa! I ricordi africani della signora Liana

Riprendiamo, dall'edizione 2010 della rivista dell'Ass. Kwizera, questa testimonianza della signora Liana Marchi Baldi che, con intensità e un po' di nostalgia, ci intrattiene sulla sua esperienza di vita in terra d'Africa e in particolare in Rwanda, al seguito del marito, l'infaticabile Brunello ( insieme nella foto). Senza nulla togliere ai tanti altri contributi pubblicati sulla Rivista, ci sembra che quello della signora Baldi sia il pezzo più interessante che sa far rivivere, con intensità e freschezza, ricordi ed emozioni particolarmente coinvolgenti.

Era il 1957 ed era il mio primo giorno in Africa. È grazie a mio marito, al suo lavoro ed al fatto che mi ha sempre voluta con sé, che ho avuto l’opportunità di vivere in Africa un periodo “abbastanza” lungo della mia vita, anche se abbastanza non è la parola giusta quando si parla di questo Paese.
Più passano gli anni, più mi rendo conto di quanto sono stata fortunata ad aver vissuto questa bella favola all’età di vent’anni. L’unico rammarico è che certo allora ero troppo giovane per apprezzare a fondo la bella realtà che stavo vivendo. Mi mancavano tante cose che i miei coetanei a casa avevano. I disagi e le paure erano tanti anche se comprensibili per una ragazza della mia età che era finita in un altro mondo, seppur meraviglioso, ma sicuramente inospitale. Mi mancava la sicurezza della mia famiglia e mi rattristava il ricordo del viso di mia madre quando la salutavo dal finestrino del treno che mi avrebbe portata tanto lontano.Tutto questo deve aver tolto qualcosa alla felicità che vivevo e che oggi col senno di poi accetterei come un dono, il dono più bello. Arrivai a Dar Er Salam in nave e da lì un piccolo aereo mi portò nel cuore del Congo. Il primo impatto con l’Africa mi lasciò smarrita. Venivo da un bel Paese, l’Italia, ed ero abituata alle belle montagne verdi e rigogliose della mia Toscana, ma il verde che ora avevo davanti agli occhi era di color smeraldo scintillante in contrasto con un terreno rosso brillante. Lungo i sentieri di terra battuta, una dietro l’altra sfilavano, come in una passerella di moda, donne avvolte in tessuti sgargianti di mille colori. Portavano sopra la testa con estrema eleganza dei grandi cesti carichi di frutta, banane, verdure, una mano appoggiata sul fianco dava loro l’andatura corretta di piccole regine e poi quei fagottini legati stretti da un foulard dietro le spalle dal quale usciva fuori la testolina ricciuta di un neonato. Queste prime immagini africane sono rimaste per sempre impresse nella mente e nessun particolare è andato mai perduto. La prima notte poi mi resi conto che il silenzio in Africa non esiste. Le mille voci della foresta accompagnate da lontani tam-tam davano vita ad un’orchestra notturna che non ha uguali e la mattina dopo, quando ho aperto gli occhi ed ho visto l’alba illuminare il cielo, mi sono detta: “Ecco, sono atterrata nel Paradiso Terrestre. Il giorno dopo sono partita per raggiungere mio marito nell’interno della foresta dove la nostra Società aveva allestito un campo base. La località prendeva il nome da un bellissimo torrente chiamato Luama. L’accampamento contava circa 500 persone fra donne bambini ed operai locali, che formavano squadre di lavoro guidate da 10 caposquadra Italiani. Io ero l’unica donna bianca dell’accampamento. Poco distanziata dal grande accampamento c’era la mia capanna, costruita abilmente dagli indigeni, le pareti erano di canna ed il tetto spiovente era tutto ricoperto da fasci di paglia, disposti in modo tale da non far passare l’acqua dei grandi acquazzoni… o quasi. Era dotata di un unico locale con al centro un’amaca dove dormivamo io e mio marito e fuori, sotto la tettoia, un piccolo tavolo da pranzo sopra il quale tenevo anche un fornellino a petrolio: la mia cucina. Non avevo né un armadio né un mobile, i pochi utensili che possedevo stavano accantonati per terra sopra cassette da bulloni vuote. Alle 4 del mattino tutti partivano per le varie destinazioni di lavoro con grande frastuono di camion e camionette. Se non sorgevano problemi con i mezzi di trasporto, durante la stagione delle piogge, infatti, i camion rimanevano spesso impantanati nel fango, tutti rientravano la sera tardi. Non c’è niente di normale in Africa. I fiumi sono impetuosi, le piogge sono scroscianti. I temporali arrivano improvvisi, con violenza, preceduti da venti fortissimi che stendono a terra interi canneti di grossi bambù. In attesa del ritorno degli uomini io rimanevo tutto il giorno con le donne dell’accampamento. Queste, la mattina, con grandi brocche ben equilibrate sopra la testa ed i loro bambini più grandicelli attaccati alla gonna, si avviavano lentamente verso il fiume per prendere l’acqua. Formavano una lunga fila di figurine cinguettanti, sempre allegre e sorridenti. Io cominciai a seguirle ogni giorno ed insieme a loro lavavo gli indumenti nell’acqua del torrente. A volte le acque mi strappavano i panni dalle mani, ma loro erano sempre pronte ad aiutarmi. Questi episodi le divertivano molto, tanto che continuavano a raccontarli a tutti, scoppiando in allegre risate. Quanta paura avevo, questo lo ricordo bene, perché all’accampamento la notte era veramente nera. Non c’era corrente elettrica e spesso mancava anche il petrolio per le “lampade Coleman” in dotazione per ogni capanna. La lampada a petrolio illuminava solo per un corto raggio e poi formava tutto intorno delle lunghe lugubri ombre nere. Non ho mai incontrato animali feroci, ma sentivo i loro ruggiti non lontano dall’accampamento. Arrivavano anche i suoni dell’insistente litigioso gioco delle scimmie. Proprio queste sarebbero state la mia salvezza dalla solitudine, perché una sera mio marito mi portò a casa una piccola, bella, simpatica, dispettosa scimmietta, tutta per me. Mi stava sempre aggrappata dietro la testa, con le sue manine strette attorno alla mia fronte ed io non fui più sola.
Oggi naturalmente l’Africa è diversa e forse è proprio questo il motivo per cui non desidero tornarci. Voglio ricordarla come l’ho conosciuta io. Vedendo le immagini in televisione, sentendo quello che racconta mio marito che tutt’oggi continua a visitarla, ho appreso che i sentieri che portavano alla Luama oggi sono strade asfaltate e l’accampamento dove abbiamo vissuto tante avventure non c’è più, perchè è stato riconquistato dalla foresta. Kigali, dove di lì a poco più di un anno sarebbe nata mia figlia Daniela, che contava solo di una chiesetta, un ospedale, l’Hotel Vanver e qua e là qualche villetta stile coloniale, oggi è diventata una grande e bella città moderna dove ormai si trova di tutto, ma dove io non ritroverei più niente. I ricordi sono tanti e, scrivendo queste riflessioni, tornano impetuosi come un fiume. Non posso elencarli tutti, ma laggiù in Africa sono nati due dei miei tre figli. Sarò sempre grata a questa Terra per tutto quello che mi ha dato, per l’amore ricevuto e oggi posso dire che, se la mia vita ha avuto un senso, molto lo devo a Lei.

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