"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


lunedì 7 luglio 2014

Un nuovo libro, un po' scontato, su Chiesa e genocidio

E’ uscito in questi giorni Il genocidio del Rwanda –Il ruolo della Chiesa cattolica di Vania Lucia Gaito, (pag.170, € 12)  per le edizioni L’asino d’oro. L' autrice, come scrive  sul proprio blog,  “ ripercorre la storia della Chiesa in Rwanda, dalla prima missione a oggi, mostrando l’operato dei missionari e della Chiesa che, teorizzando presunte differenze razziali, schierandosi prima con una fazione e poi con l’altra a seconda dei propri interessi economici e fomentando l’odio, furono i responsabili morali (quando non addirittura materiali) del genocidio ruandese. La ricostruzione evidenzia il ruolo giocato dalla Chiesa e dalle politiche colonialiste nello sterminio di quasi un milione di persone durante quei tragici cento giorni, che la comunità internazionale tentò di far passare come guerra tribale. I preti genocidari, ricercati dal Tribunale penale internazionale, trovarono asilo in Europa e in Italia, protetti dalla Chiesa e inviati in parrocchie dell’entroterra toscano. Tuttora, i missionari negano o sminuiscono quanto avvenuto in Rwanda nel 1994 e né il papa né il Vaticano hanno mai chiesto scusa.”
Non ci pare che il lavoro risponda in maniera convincente agli ambiziosi propositi dell'autrice.Trattasi, infatti, di una lettura stereotipata e acritica della storia rwandese e del genocidio, che nulla aggiunge a quanto già conosciuto. Manca totalmente di un'adeguata rappresentazione della storia della Chiesa rwandese che avrebbe meritato ben altro livello di indagine. Una Chiesa affrancatasi sin dai primi decenni del novecento dalla dipendenza dei primi missionari per intraprendere un percorso che l'ha portata a caratterizzarsi come una Chiesa totalmente autoctona.Ormai da decenni la Chiesa rwandese si avvale di clero locale e, diversamente da quanto lascia intendere l'autrice,  i missionari presenti in Rwanda si contano ormai da tempo sulle dita delle mani e da decenni non ricoprono alcun ruolo significativo all'interno della comunità ecclesiale rwandese. Negli ultimi cinquanta anni, pur tra inevitabili contraddizioni, la Chiesa istituzionale rwandese, fatta da rwandesi, ha svolto la propria missione all'interno della comunità ecclesiale rwandese, risentendo delle  inevitabili contraddizioni presenti nella più ampia società civile del paese e, a volte, riproponendole.   Questo aspetto è totalmente assente nell'analisi con la conseguenza che il quadro che ne emerge soffre di un eccesso di semplificazione e di qualche fraintendimento. Non sembrerebbe secondario nell'economia dell'analisi effettuata misurarsi con il dato di un clero totalmente locale, dove la componente tutsi e' presente in percentuali ben al di sopra del classico 15%  attribuito al gruppo nella societa' civile, fino a rappresentare la maggioranza tra i vescovi rwandesi.A nostro avviso una lacuna importante se si ha la pretesa di fare  un'indagine  sul ruolo della Chiesa. La Gaito nella sua ricerca dà la sensazione di non conoscere appieno questo dato; diversamente l'approccio avrebbe dovuto riflettere qualche cautela in piu'  e dover necessariamente trovare diverse risposte ai numerosi interrogativi che ne conseguono. Per concludere, riteniamo il libro della Gaito un tentativo piuttosto maldestro di ripetere un'operazione editoriale che era riuscita all'autrice, con qualche successo, con una sua precedente fatica riguardante storie di preti pedofili. Purtroppo per la Gaito, parlare del Rwanda richiede anche qualche applicazione che non si trova in questa sua ultima opera.  
Di seguito per chi fosse interessato riportiamo qualche annotazione nello specifico di taluni punti  del libro.
L'autrice sopperisce alla scarsa conoscenza della realtà  locale arricchendo il testo con qualche post di un blogger cosmopolita, conoscitore della realtà rwandese ma anche dichiaratamente ostile a tutto quanto odora anche lontanamente di religione; alle lettere di  una psicologa impegnata sul campo nell’assistenza  alle superstiti del genocidio; a una intervista con la professoressa Michela Fusaschi, esperta del Rwanda della quale abbiamo recensito un lavoro, e che in questa occasione dimostra un approccio un po' più critico circa l'attuale situazione rwandese. Di proprio l'autrice ci mette qualche opinabile dato statistico, come quando parla di 300.000 tutsi uccisi nel cosiddetto "piccolo genocidio" del 1963 ( forse c’è uno zero di troppo) e del milione di profughi tutsi a partire dal 1959: l’Onu nel rapporto del 1960 ne segnala meno di 150.000 in tutta l’area  dei paesi confinanti. Numeri decisamente gonfiati se solo si pensa che nel 1960 l'intera popolazione rwandese era di  2.933.000 abitanti.
Che dire poi del milione di capi di bestiame che si sarebbero portati al seguito i 750.000 tutsi rientrati dall’Uganda nel 1994. 
Anche altri passaggi lasciano perplessi come quando parla degli abiiru, come un “gruppo di  consiglieri (del mwami, re ) composto esclusivamente da hutu” quasi a voler sostenere una divisione di potere al vertice fra i due gruppi;  in realtà questi depositari dei misteri esoterici inerenti la trasmissione del  potere regale, erano in prevalenza provenienti dai clan tutsi. Non si capisce, inoltre, come si possa sostenere la tesi dell'invenzione delle due etnie e poi parlare tranquillamente dei banyamulenge come tutsi congolesi. Risulta fuori posto anche qualche pennellata di colore coloniale riferito al Rwanda quando si parla di coloni belgi e sfruttatori delle ricchezze del paese, come se ci trovassimo nel vicino Congo; chi conosce il Rwanda sa che c’è ben poco da sfruttare e di coloni belgi  se ne sono visti ben pochi da queste parti. A proposito di Congo, risulta piuttosto reticente, per non dire benevola, la ricostruzione che fa l’autrice, delle imprese del nuovo governo rwandese  sul territorio del grande vicino che è costato qualche milioni di morti e l’accusa dell’Onu a Kagame e compagni di aver compiuto atti che potrebbero configurare l’accusa di genocidio.
All’interno di un simile contesto delineato in maniera piuttosto approssimativa, l’autrice passa in rassegna i casi ormai noti di uomini di chiesa che si sono macchiati di gravi delitti nel corso del genocidio e per cui hanno subito le sacrosante condanne dal Tribunale internazionale penale per il Rwanda: si tratta dei noti  casi dei sacerdoti Athanase Seromba condannato all'ergastolo, Emmanuel Rukundo condannato a 25 anni in primo grado e  Hormisdas Nsengimana, quest'ultimo assolto per insufficienza di prove, e delle suore  Gertrude condannta a  15 anni e  Kisito a 12 anni e Theophister a 30 anni
L’autrice, non contenta di questi pochi casi portati all'attenzione del TIPR, si spinge oltre su un terreno che diventa per lei scivoloso. Così cita il caso del vescovo Augustin Misago che, dopo 14 mesi di prigione, viene assolto  dall'accusa che avrebbe implicato la condanna a morte da una corte rwandese, perché, a detta dell'autrice,  sarebbe intervenuto sui giudici papa Giovanni Paolo II in persona. Questa sola affermazione dimostra come poco conosca la realtà rwandese la Gaito: in Rwanda nulla accade  senza l’ok di Kagame, soprattutto quando si tratta dell’assoluzione di un vescovo. Analogo il caso del sacerdote    Emmanuel Uwayezu, scovato in Italia su denuncia dell'ong African Rights, accusato dalle autorità di Kigali di essere implicato nel genocidio,  ma di cui un tribunale italiano non ha autorizzato l'estradizione non ritenendo sussisterne i presupposti. Ancora  African Rights  viene scomodata dall'autrice per ricordare il caso del sacerdote attualmente in servizio nella diocesi di Lucca accusato di null'altro se non di  essere stato cappellano militare al tempo del genocidio.  Sull'affidabilità di questa ong, non siamo i soli ad aver sollevato dubbi dopo che è emerso che la sua direttrice nonchè curatrice del rapporto, la somala Rakiya Omaar,  non disdegnava di fare qualche lavoro, debitamente remunerato,  per lo stesso  governo rwandese e che qualcuno sostiene, salvo casi di omonimia, di aver visto accompagnarsi ad ufficiali dei servizi del FPR durante l'avanzata del 1994. Fin qui quanto trattato nel libro. Forse però risulta più importante quanto omesso. Se  si parla di ruolo della Chiesa nelle vicende rwandesi sarebbe stato bello leggere  anche  del sangue versato dai membri di quella  Chiesa nella guerra civile degli anni novanta: nel libro non si fa alcuna menzione dei circa trecento tra preti e suore uccisi (compresi un arcivescovo e tre vescovi), di cui un centinaio uccisi dai genocidari  perché difendevano i tutsi, gli altri uccisi dai vincitori e attuali governanti per motivazioni che la Gaito non si perita di indagare.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Preti genocidari non solo in toscana ma anche il liguria e da qualche anno in piemonte anche se spostato frequentemente. Gli sono attribuiti ( forse) 850 morti. Per quanto riguarda i missionari italiani ci sono e stanno facendo i loro sporchi interessi e non quelli dei fedeli
Devo pero ammettere che tanti preti neri sono seri e fanno l'interesse dei loro fedeli e quello del loro datore di lavoro ( quello trascendente ovviamente, non quello di Roma) Parlo per esperienza diretta, non per sentito dire.