E’
uscito in questi giorni Il genocidio del Rwanda –Il ruolo della Chiesa
cattolica di Vania Lucia Gaito, (pag.170, € 12) per le edizioni
L’asino d’oro. L' autrice, come scrive sul proprio blog, “ ripercorre
la storia della Chiesa in Rwanda, dalla prima missione a oggi, mostrando
l’operato dei missionari e della Chiesa che, teorizzando presunte differenze
razziali, schierandosi prima con una fazione e poi con l’altra a seconda dei
propri interessi economici e fomentando l’odio, furono i responsabili morali
(quando non addirittura materiali) del genocidio ruandese. La ricostruzione
evidenzia il ruolo giocato dalla Chiesa e dalle politiche colonialiste nello
sterminio di quasi un milione di persone durante quei tragici cento giorni, che
la comunità internazionale tentò di far passare come guerra tribale. I preti
genocidari, ricercati dal Tribunale penale internazionale, trovarono asilo in
Europa e in Italia, protetti dalla Chiesa e inviati in parrocchie
dell’entroterra toscano. Tuttora, i missionari negano o sminuiscono quanto
avvenuto in Rwanda nel 1994 e né il papa né il Vaticano hanno mai chiesto
scusa.”
Non
ci pare che il lavoro risponda in maniera convincente agli ambiziosi propositi
dell'autrice.Trattasi, infatti, di una lettura stereotipata e acritica della
storia rwandese e del genocidio, che nulla aggiunge a quanto già conosciuto.
Manca totalmente di un'adeguata rappresentazione della storia della Chiesa
rwandese che avrebbe meritato ben altro livello di indagine. Una
Chiesa affrancatasi sin dai primi decenni del novecento dalla dipendenza dei
primi missionari per intraprendere un percorso che l'ha portata
a caratterizzarsi come una Chiesa totalmente autoctona.Ormai da decenni la
Chiesa rwandese si avvale di clero locale e, diversamente da quanto lascia
intendere l'autrice, i missionari presenti in Rwanda si contano ormai da
tempo sulle dita delle mani e da decenni non ricoprono alcun ruolo
significativo all'interno della comunità ecclesiale rwandese. Negli ultimi
cinquanta anni, pur tra inevitabili contraddizioni, la Chiesa istituzionale
rwandese, fatta da rwandesi, ha svolto la propria missione all'interno della
comunità ecclesiale rwandese, risentendo delle inevitabili contraddizioni
presenti nella più ampia società civile del paese e, a
volte, riproponendole. Questo aspetto è totalmente
assente nell'analisi con la conseguenza che il quadro che ne emerge soffre di
un eccesso di semplificazione e di qualche fraintendimento. Non sembrerebbe
secondario nell'economia dell'analisi effettuata misurarsi con il dato
di un clero totalmente locale, dove la componente tutsi e' presente in
percentuali ben al di sopra del classico 15% attribuito al gruppo nella societa'
civile, fino a rappresentare la maggioranza tra i vescovi rwandesi.A nostro
avviso una lacuna importante se si ha la pretesa di fare un'indagine
sul ruolo della Chiesa. La Gaito nella sua ricerca dà la sensazione di
non conoscere appieno questo dato; diversamente l'approccio avrebbe dovuto
riflettere qualche cautela in piu' e dover necessariamente trovare
diverse risposte ai numerosi interrogativi che ne conseguono. Per
concludere, riteniamo il libro della Gaito un tentativo piuttosto maldestro di
ripetere un'operazione editoriale che era riuscita all'autrice, con qualche
successo, con una sua precedente fatica riguardante storie di preti pedofili.
Purtroppo per la Gaito, parlare del Rwanda richiede anche qualche applicazione
che non si trova in questa sua ultima opera.
Di
seguito per chi fosse interessato riportiamo qualche annotazione nello
specifico di taluni punti del libro.
L'autrice
sopperisce alla scarsa conoscenza della realtà locale arricchendo il
testo con qualche post di un blogger cosmopolita, conoscitore della realtà
rwandese ma anche dichiaratamente ostile a tutto quanto odora anche
lontanamente di religione; alle lettere di una psicologa impegnata sul
campo nell’assistenza alle superstiti del genocidio; a una intervista con
la professoressa Michela Fusaschi, esperta del Rwanda della
quale abbiamo recensito un lavoro, e che in questa occasione dimostra
un approccio un po' più critico circa l'attuale situazione rwandese. Di proprio
l'autrice ci mette qualche opinabile dato statistico, come quando parla di
300.000 tutsi uccisi nel cosiddetto "piccolo genocidio" del 1963 (
forse c’è uno zero di troppo) e del milione di profughi tutsi a partire dal
1959: l’Onu nel rapporto del 1960 ne segnala meno di 150.000 in tutta
l’area dei paesi confinanti. Numeri decisamente gonfiati se solo si pensa
che nel 1960 l'intera popolazione rwandese era di 2.933.000
abitanti.
Che
dire poi del milione di capi di bestiame che si sarebbero portati al
seguito i 750.000 tutsi rientrati dall’Uganda nel 1994.
Anche
altri passaggi lasciano perplessi come quando parla degli abiiru,
come un “gruppo di consiglieri (del mwami, re ) composto
esclusivamente da hutu” quasi a voler sostenere una divisione di potere al
vertice fra i due gruppi; in realtà questi depositari dei misteri
esoterici inerenti la trasmissione del potere regale, erano in prevalenza
provenienti dai clan tutsi. Non si capisce, inoltre, come si possa sostenere la
tesi dell'invenzione delle due etnie e poi parlare tranquillamente dei banyamulenge come
tutsi congolesi. Risulta fuori posto anche qualche pennellata di colore
coloniale riferito al Rwanda quando si parla di coloni belgi e sfruttatori
delle ricchezze del paese, come se ci trovassimo nel vicino Congo; chi conosce
il Rwanda sa che c’è ben poco da sfruttare e di coloni belgi se ne sono
visti ben pochi da queste parti. A proposito di Congo, risulta piuttosto
reticente, per non dire benevola, la ricostruzione che fa l’autrice, delle
imprese del nuovo governo rwandese sul territorio del grande vicino che è
costato qualche milioni di morti e l’accusa
dell’Onu a Kagame e compagni di aver compiuto atti che potrebbero
configurare l’accusa di genocidio.
All’interno
di un simile contesto delineato in maniera piuttosto approssimativa, l’autrice
passa in rassegna i casi ormai noti di uomini di chiesa che si sono macchiati
di gravi delitti nel corso del genocidio e per cui hanno subito le sacrosante
condanne dal Tribunale internazionale penale per il Rwanda: si tratta dei noti
casi dei sacerdoti Athanase Seromba condannato all'ergastolo, Emmanuel Rukundo
condannato a 25 anni in primo grado e Hormisdas Nsengimana, quest'ultimo
assolto per insufficienza di prove, e delle suore Gertrude condannta
a 15 anni e Kisito a 12 anni e Theophister a 30 anni
L’autrice,
non contenta di questi pochi casi portati all'attenzione del TIPR, si spinge
oltre su un terreno che diventa per lei scivoloso. Così cita il caso del
vescovo Augustin Misago che, dopo 14 mesi di prigione, viene assolto dall'accusa
che avrebbe implicato la condanna a morte da una corte rwandese, perché, a
detta dell'autrice, sarebbe intervenuto sui giudici papa Giovanni
Paolo II in persona. Questa sola affermazione dimostra come poco conosca la
realtà rwandese la Gaito: in Rwanda nulla accade senza l’ok di Kagame,
soprattutto quando si tratta dell’assoluzione di un vescovo. Analogo il caso
del sacerdote Emmanuel Uwayezu, scovato in Italia su denuncia
dell'ong African Rights, accusato dalle autorità di Kigali di essere implicato
nel genocidio, ma di cui un tribunale italiano non ha autorizzato
l'estradizione non ritenendo sussisterne i presupposti. Ancora African
Rights viene scomodata dall'autrice per ricordare il caso del
sacerdote attualmente in servizio nella diocesi di Lucca accusato di null'altro
se non di essere stato cappellano militare al tempo del genocidio.
Sull'affidabilità di questa ong, non siamo i soli ad aver sollevato dubbi
dopo che è emerso che la sua direttrice nonchè curatrice del rapporto, la
somala Rakiya Omaar, non disdegnava di fare qualche lavoro, debitamente
remunerato, per lo stesso governo rwandese e che qualcuno sostiene,
salvo casi di omonimia, di aver visto accompagnarsi ad ufficiali dei servizi
del FPR durante l'avanzata del 1994. Fin qui quanto trattato nel libro.
Forse però risulta più importante quanto omesso. Se si parla di ruolo
della Chiesa nelle vicende rwandesi sarebbe stato bello leggere
anche del sangue versato dai membri di quella Chiesa nella guerra civile
degli anni novanta: nel libro non si fa alcuna menzione dei circa trecento
tra preti e suore uccisi (compresi un arcivescovo e tre vescovi), di cui un
centinaio uccisi dai genocidari perché difendevano i tutsi, gli altri
uccisi dai vincitori e attuali governanti per motivazioni che la Gaito non si
perita di indagare.
1 commento:
Preti genocidari non solo in toscana ma anche il liguria e da qualche anno in piemonte anche se spostato frequentemente. Gli sono attribuiti ( forse) 850 morti. Per quanto riguarda i missionari italiani ci sono e stanno facendo i loro sporchi interessi e non quelli dei fedeli
Devo pero ammettere che tanti preti neri sono seri e fanno l'interesse dei loro fedeli e quello del loro datore di lavoro ( quello trascendente ovviamente, non quello di Roma) Parlo per esperienza diretta, non per sentito dire.
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