Qualche anno fa, navigando su internet, ci imbattemmo nel sito di un'importante Ong svizzera in cui veniva illustrato un progetto che la stessa Ong diceva di aver realizzato in Rwanda. Quel progetto ci era particolarmente familiare. Si trattava infatti del terrazzamento di una collina nel villaggio di Niynawimana, un villaggio situato nel nord del Rwanda, con annessa realizzazione di una moderna fattoria ( stalla, cisterne e magazzino di stoccaggio), né più né meno della medesima realizzazione portata a termine a partire dal 2004 dall’Associazione Kwizera, come documentato nella nostra pubblicazione Kwizera Rwanda del 2011, a partire da pag 119. L'intervento era stato attuato, appoggiandosi su referenti locali, don Paolo Gahutu, allora responsabile dell'Economato diocesano e fratel Francois, esperto in opere di terrazzamento, e seguendo i lavori dall'Italia, secondo modalità operative messe in campo dall’associazione nella realizzazione dei propri progetti in terra ruandese. Modalità molto semplici: seguire ogni singolo progetto con propri uomini di fiducia sul campo, dall'iniziale fase progettuale, agli stati di avanzamento fino alla sua realizzazione, dal budget di spesa al rendiconto finale. Perché raccontiamo questo episodio? Lo raccontiamo perché abbiamo letto nei giorni scorsi l'intervento dell'africanista Anna Bono sul La Nuova Bussola Quotidiana in cui si paventava che un piano Marshall per l'Africa possa comportare il rischio che i fondi che i governi occidentali stanziano per interventi in Africa possano andare ad ingrassare le autocrazie locali invece che a finanziare reali progetti di sviluppo. Se è lecito portare la piccola esperienza di una realtà dalle dimensioni contenute come l'Ass. Kwizera, che ha pur sempre realizzato in Rwanda progetti per oltre un milione e mezzo di euro negli ultimi 15 anni, possiamo dire che la malversazione dei fondi degli aiuti può essere evitata se il donatore si fa carico di seguire e realizzare direttamente i progetti che intende finanziare, avvalendosi di propri fiduciari in zona. Nel momento in cui si applicano queste prassi la possibilità che i fondi dei donatori siano utilizzati in maniera fraudolenta per altri fini o piuttosto che vadano a finanziare figurativamente progetti che sono già stati finanziati da altri donatori, come nel caso illustrato, si riduce drasticamente. Quindi se il donatore si fa carico di seguire localmente l'individuazione, con le autorità locali, dell'opera da finanziare, di richiedere i relativi budget a realtà locali, confrontandoli tra loro e con i prezzi di mercato esistenti su piazza, il rischio di malversazione sui fondi dei donatori si riducono effettivamente al minimo, anche se sicuramente anche qualche euro dall'Associazione sarà finito impropriamente in qualche tasca dove non doveva arrivare per qualche costo gonfiato, ma la grossa parte dei fondi stanziati si sono concretizzati nei relativi progetti. Volendo trasferire questa piccola esperienza ad una realtà più grande come quella governativa si potrebbe pensare che gli stanziamenti governativi a favore di un paese africano possono concretizzarsi in realizzazione di opere strutturali, nei più vari campi, effettuate direttamente dal donatore, piuttosto che farli transitare dalle mani delle varie autorità locali, perché non succeda, nel migliore dei casi, quello che è successo con la Ong straniera che aveva sì mandato proprio i fondi in Rwanda, non seguendone però il conseguente utilizzo, salvo vedersi riconosciuto la realizzazione del progetto, realizzato e finanziato da altri, con il conseguente dirottamento dei fondi stanziati ad altre finalità più o meno nobili. Se poi l'esperienza di una piccola realtà associativa non risultasse convincente, forse andrebbero studiate le politiche messe in atto dalla Cina in Africa, certo non sempre convincenti e condivisibili sotto diversi aspetti, ma che comunque difficilmente si prestano alle malversazione paventate dalla brava, anche se un po' pessimista, professoressa Bono.
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