"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


domenica 23 aprile 2017

Quella lettera pastorale di mons Perraudin del febbraio 1959

La lettera che mons.  André Perraudin,Vicario apostolico di Kabgayi, inviò nella quaresima del 1959 ai fedeli dela propria diocesi occupa indubbiamente un posto di rilievo nella storia del Rwanda. Siamo alla vigilia di passaggi storici fondamentali: dalla fine dell'epoca coloniale alla dichiarazione dell'indipendenza, dall'abolizione della monarchia e alla proclamazione della repubblica. A quella lettera molti fanno risalire grandi responsabilità circa l'innesco dei conflitti interetnici che sono poi sfociati nella guerra civile del 199o-94 e alla sua tragica conclusione.  La recente visita delpresidente Kagame al Papa, che ha riacceso i riflettori sulla storia della Chiesa rwandese e sui suoi uomini, ha portato più di un osservatore a soffermarsi  sul ruolo ricoperto  da mons.  Perraudin, al quale, non più tardi di qualche giorno fa, l'organo filogovernatico The New Times  dedicava un articolo, a firma dello storico Tom Ndahiro, dal  titolo  "L'Arcivescovo Perraudin: "L'uomo di Dio" che ha piantato il seme dell'odio come fosse carità cristiana", che non lascia pochi dubbi interpretativi. Lasciamo volentieri agli storici, professionali e non di parte, pervenire a un giudizio storico equilibrato sul ruolo della Chiesa e dei suoi uomini, compreso mons. Perraudin, nella complessa storia del Rwanda. Qui vorremmo limitarci a proporre una lettura della famosa lettera, al cui proposito L'Osservatore romano del 19 maggio 1999 così scriveva: Le accuse a mons. Perraudin sono ancora più inverosimili. La sua lettera pastorale dell'11 febbraio 1959 ("dell'odio" secondo gli accusatori) è in realtà una lettera che domanda giustizia e carità. In essa si legge: "Nel nostro Ruanda le differenze e disuguaglianze sociali sono in gran parte legate alle differenze di razza, nel senso che le ricchezze, il potere politico e anche giudiziario sono in realtà – in proporzione considerevole – nelle mani della gente di una stessa razza". Egli additava cioè il problema dell'emarginazione sociale subita dalla popolazione di etnia hutu che costituiva la maggioranza. Egli aggiunge che "questo stato di cose è l'eredità di un passato che non dobbiamo giudicare"; nello stesso tempo egli domanda che siano assicurati "a tutti gli abitanti e a tutti i gruppi sociali legittimi gli stessi diritti fondamentali". Risulta chiaro che la propaganda politica con­tro il vescovo e i missionari cerca di far ricadere sulla chiesa (e come una colpa) l'opera di "politicizzazione degli hutu" (circa l'85% della popolazione) che avrebbe portato al crollo della monarchia tutsi (circa il 12%) al tempo dell'indipendenza, alla loro estromissione dal potere fino al 1994 e al genocidio.
"Super omnia Caritas" era il titolo della lettera che si articolava in una prima parte dedicata appunto alla carità nella vita del cristiano  e in una seconda in cui il presule analizzava la situazione del paese di  quel lontano 1959. Qui, mons. Perraudin evidenziavano le numerose criticità di ordine sociale e politico che caratterizzavano il paese, spingendosi a suggerire i criteri attraverso i quali "le istituzioni di un paese siano in grado di fornire realmente a tutti i suoi abitanti e a tutti i gruppi sociali legittimi, gli stessi diritti fondamentali e le pari opportunità di sviluppo umano  e di  partecipazione alla vita pubblica". L'analisi della situazione rwandese e le conseguenti proposte traggono  ispirazione dal complesso dei principi della dottrina sociale della Chiesa, che trovano qui una loro corretta  declinazione, per certi versi anticipatrice di future acquisizioni del magistero, si pensi alla Popolorum progessio, che verrà qualche anno dopo. Riproponiamo qui di seguito, in una nostra traduzione, questa seconda parte in cui ognuno potrà serenamente valutare la fondatezza delle accuse mosse al prelato, con riferimento specifico ai contenuti della lettera e non alla loro eventuale strumentalizzazione. 
Applicazioni alla situazione del paese.
Ci sono anche nel nostro amato Rwanda,
come in molti altri paesi del mondo,  vari gruppi sociali. La distinzione tra questi gruppi è in gran parte dovuta alla razza, ma anche ad altri fattori, come la ricchezza, il ruolo politico o la religione. Ci sono africani, europei e asiatici. Tra gli africani ci sono Tutsi, Hutu e il Batwa; ci sono ricchi e poveri; ci sono pastori e contadini; ci sono  commercianti e  artigiani; ci sono cattolici e protestanti, indù e musulmani, e ci sono ancora molti pagani; ci sono i governanti e governati. Al momento il problema è particolarmente dibattuto a proposito  delle differenze tra le razze rwandesi.Questa diversità di gruppi sociali e soprattutto di razze rischia da noi di  degenerare in divisioni fatali per tutti. Cari cristiani del Rwanda, facciamo appello al vostro buon senso e alla vostra carità perchè Dio ci risparmi questa calamità.Siamo certi che il nostro appello, ispirato solo dall'amore che portiamo a tutti e ciascuno dei nostri figli, qualunque sia il gruppo di appartenenza, troverà un'eco fedele e generosa nei vostri cuori di cristiani. Vogliamo, però, illuminarvi a questo proposito, perché nel paese si comincia a diffondere ogni sorta di idee, molte delle quali non conformi alla dottrina della Chiesa.Constatiamo innanzitutto come ci siano effettivamente  in Rwanda più razze assai nettamente caratterizzate, anche se certe alleanze tra di loro hanno avuto luogo tanto che non sempre è possibile stabilire a quale razza un individuo appartenga. Questa diversità di razze all'interno di un paese è un fatto normale, contro il quale non possiamo fare nulla. Noi ereditiamo un passato che non dipende da noi. Dobbiamo accettare di essere diverse razze e cerchiamo di capirci e di amarci come fratelli dello stesso paese.Tutte le razze sono ugualmente rispettabili e gradite a Dio. Ogni razza ha i suoi pregi e difetti. D’altra parte, nessun  può scegliere di nascere in un gruppo piuttosto che in un altro. E 'ingiusto e quindi incompatibile con la carità rinfacciare  a qualcuno l’appartenenza ad una determinata razza, e soprattutto a disprezzare qualcuno a causa della sua razza. Soluzione del tutto naturale è  che le persone appartenenti a diverse razze vadano d'accordo e si armonizzino in particolare se, storicamente, vivono fianco a fianco nello stesso territorio. Dal punto di vista cristiano le differenze razziali, però, devono fondersi nella più alta unità della Comunione dei Santi. I cristiani, a qualsiasi razza appartengano, sono più che fratelli tra loro, essi partecipano alla stessa vita in Cristo Gesù e hanno un solo Padre che è nei cieli. Colui che, recitando il Padre nostro, privasse del suo affetto un uomo di un'altra razza, costui in realtà non invocherebbe il Padre che è nei cieli e  non sarebbe da Lui ascoltato. Non c'è una chiesa per razza, c'è la Chiesa cattolica, in cui, come dice l'apostolo san Paolo, "non c'è né Ebreo né Greco, non c 'né schiavo né libero ... poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù ". (Gal. 3,28). La Chiesa non è quindi  per una razza piuttosto che un altra, la Chiesa è per tutte le razze che  abbraccia con uguale amore e pari dedizione.Nel nostro Rwanda le differenze e le disuguaglianze sociali sono in gran parte legate a differenze di razza, nel senso che la ricchezza da un lato, e il potere politico e anche giudiziario, sono in realtà in parte considerevole nelle mani di persone della stessa razza. Questo stato di cose è l'eredità di un passato che non dobbiamo giudicare. Ma è certo che questa situazione di fatto non è più conforme alle prescrizioni di una sana organizazione della società rwandese e pone ai responsabili della cosa pubblica delicati e ineludibili problemi.Non abbiamo come vescovo, rappresentante una Chiesa i cui fini sono  soprannaturali, il compito di offrire soluzioni tecniche a questi problemi,  ma ci compete di ricordare a tutti, autorità preposte o promotori di movimenti politici, che toccherà loro trovarle, alla luce della legge divina della giustizia e della carità sociale.Questa legge richiede che le istituzioni di un paese siano in grado di fornire realmente a tutti i suoi abitanti e a tutti i gruppi sociali legittimi, gli stessi diritti fondamentali e le pari opportunità di sviluppo umano  e di  partecipazione alla vita pubblica. Le istituzioni che favorissero un regime di privilegi, di favoritismi e di  protezionismi, sia per gli individui e che per i gruppi, non sono conformi alla morale cristiana.La morale cristiana richiede, inoltre, che le funzioni pubbliche siano affidate a uomini di capacità e integrità, interessati soprattutto al bene della comunità di cui sono rappresentanti. Sarebbe contrario alla giustizia e alla carità sociale  affidare a qualcuno una responsabilità pubblica in considerazione della sua razza o ricchezza, o dell’amicizia che ci lega, ignorando del tutto le sue capacità e le sue virtù.La morale cristiana chiede alle autorità di essere al servizio dell comunità e non solo di un gruppo, e che si impegni con particolare dedizione e con tutti i mezzi possibili nel recupero e  sviluppo culturale, sociale ed economico dell’intera popolazione. La Chiesa è contro la lotta tra le classi, qualunque sia la loro origine, ricchezza o razza o qualsiasi altro fattore di sorta, ma ammette che una  classe sociale lotti per i suoi interessi legittimi mediante mezzi onesti, per esempio raggruppandosi in  associazioni. L'odio, il disprezzo, lo spirito di divisione e disunione, la menzogna e la calunnia sono modi di lotta disonesti e severamente condannati da Dio. Non ascoltate, cari cristiani, coloro che, con il pretesto di amore per un gruppo, predicano l'odio e il disprezzo verso  un altro gruppo.Per essere legittimi, i gruppi sociali o altri dovrebbero non solo perseguire con mezzi onesti il loro bene e  quello dei loro membri, ma ancora tendere all'unione con le altre classi e subordinare il perseguimento del  loro bene particolare  a quello del  bene comune di tutto il paese.Il bene comune non può infatti consistere in una lotta continua, ma solo in una vera e fraterna collaborazione, fatta di una distribuzione più equa e più caritatevole dei beni, di responsabilità  e di funzioni.I cattolici, in particolare i responsabili della cosa pubblica e quelli che sono alla testa di  gruppi sociali dovrebbero incontrarsi e riflettere insieme sui problemi del paese, al fine di trovare soluzioni valide per tutti e ispirate alla dottrina sociale della Chiesa.Vogliamo ricordare ancora la sentenza di un  saggio: "Quid leges sine moribus? " A che servono le leggi se non c'è morale?" Le leggi, le istituzioni, le riforme sociali e politiche non otterranno risultati sperati se non   sono supportati, negli uomini, da una riforma dei costumi e un generoso sforzo di virtù. Nessun solido ordine sociale, nessuna vera civiltà umana può essere costruita senza l'obbedienza franca e cordiale della legge di Dio contenuta nel Vangelo e continuamente predicata dalla Chiesa e dal suo Magistero vivente.Chiediamo infine a tutti gli uomini di buona volontà e soprattutto ai nostri cristiani ed ai nostri catecumeni, a qualunque  gruppo appartenengano, che non solo ascoltino questi insegnamenti e li meditino,  ma ancor più li mettano in pratica con coraggio nella propria vita e li trasmettano alla  Comunità di cui sono membri.
Conclusione.
Cari cristiani, finiamo questa lunga lettera ribadendo il precetto del Signore "Amatevi gli uni gli altri", perché è il riassunto della legge cristiana come  afferma mirabilmente l'apostolo Paolo nella lettera ai  Romani: " Non abbiate debiti con nessuno, tranne quello dell'amore reciproco, perché chi ama il suo simile ha così adempiuto alla legge. In effetti il comandamento: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non concupire, e tutti gli altri si riassumono in questa formula: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo.Quindi l'amore è la legge nella sua pienezza "(Rm. 13,8-10).Preghiamo tutti insieme, cari cristiani, e con  perseveranza nel corso di quest'anno affichè la carità si diffonda in tutto il paese e penetri nel fondo dei cuori. E 'una grande grazia che chiediamo, ma è così gradita a Dio nostro Padre che Egli ce la concederà prontamente.La Vergine Maria, che è stata chiamata la "Madre del bell'amore" interceda per noi in modo che siamo docili al più grande e più bello dei comandamenti che ci ha lasciato il suo Figlio Gesù.
Cari cristiani, vi diamo la nostra paterna benedizione.
+ A. Perraudin
Vic. Ap. Kabgayi
Kabgayi 11 Febbraio 1959





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