Silvana Arbia, oggi capo
della cancelleria della Corte penale internazionale dell’Aia, per quasi nove
anni, fino al 2008, ha lavorato come procuratore e poi chief of prosecutions
presso il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (tpir ) a Kigali e ad
Arusha in Tanzania. Di recente ha pubblicato
un libro – Mentre il mondo stava a guardare ed.
Mondatori- in cui racconta di quel
periodo e del difficile ma instancabile cammino che la giustizia
internazionale ha fatto per combattere
i crimini contro l'umanità. In particolare, la ricostruzione di una decina di
casi, in cui l’autrice ha sostenuto l’accusa nei processi contro alcuni tra i
più spietati responsabili del genocidio rwandese, mira a richiamare la
coscienza del mondo a non dimenticare le crudeltà di quel tragico periodo perché
non si abbiano a ripetere. Dobbiamo dire che il libro non convince. Da una
donna chiamata a reggere l’accusa e “determinata a fare quello che potevo per
ridare giustizia a quel paese martoriato” e oggi seduta su un comodo scranno all'Aia, ci si sarebbe aspettati un po’ di
quel coraggio che l’Arbia rappresentante dell'accusa richiedeva ai suoi testimoni chiamati a
confermare le prove contro i tanti imputati di efferati delitti. Nel rispetto
del mandato di indagare e giudicare “le responsabilità di entrambi” i
contendenti in campo, un accenno, en passant, anche alle responsabilità dei
vincitori, proprio perché, come esplicitamente espresso dalla stessa autrice,
“il vincitore non poteva più essere considerato, come accadeva in passato, il
giudice dei vinti”, forse poteva trovare posto nelle 197 pagine del libro. Invece niente. Invano
cerchereste un riferimento alle migliaia di vittime civili tra la popolazione
del nord occupato da quelli che l’autrice chiama i ribelli del Fpr, piuttosto
che al massacro, avvenuto nel 1995 da parte dell’esercito dei vincitori, di qualche
migliaia di sfollati nel campo profughi di
Kibeho ( 4.000 secondo osservatori internazionali), anche se quest'ultimo crimine non rientrante nella sfera di competenza del
Tpir. Eppure queste vicende dovevano
essere citate nel Libro Azzurro dell’Onu, contenente la cronistoria dei
fatti rwandesi, che l’autrice cita come fosse la Bibbia “le raccolte di
documenti delle Nazioni Unite non hanno mai mancato di offrirmi il conforto
della veridicità storica dei fatti”. Forse, in questo caso anche la procura del
Tribunale, così come il mondo, “stava a guardare”.
Perché non farne almeno un
accenno? Non fosse altro per dire che si sarebbe voluto, ma non si è potuto
prendere alcuna iniziativa. Salvo fare la fine del magistrato svizzero Carla
Del Ponte, collega dell’Arbia al Tribunale per il Rwanda e mai citata nel
libro, allontanata dallo stesso Tribunale nel 2003 perché le sue indagini
intendevano far luce anche sulle responsabilità dei vincitori. Magari a partire
dalla ricerca dei responsabili, mai individuati, dell’abbattimento dell’aereo
presidenziale del 6 aprile 1994, con la morte del presidente rwandese e di
quello del Burundi, che diede avvio agli eccidi e che l’Arbia archivia con un
ineffabile “ la questione è tuttora aperta e la verità avvolta nel mistero. Si
sono fatte, però, diverse ipotesi”. Ma se la ricerca della
verità non compete a un procuratore del Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir
), a chi? E
senza verità come si può aspirare a "ridare
giustizia a un popolo martoriato”? Il libro un
po’ narcisistico dell’Arbia non ha neppure provato a sfilacciare quel velo
per intravedere la verità, eppure aveva l'opportunità per farlo. Per questo crediamo che sia
un’occasione mancata.