"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


giovedì 11 aprile 2019

Rwanda 1994-2019:un percorso di riscatto e di riconciliazione


Riprendiamo nostro articolo apparso su Il Settimanale della diocesi di Como.
Il 30 settembre 2018, il presidente del Rwanda, Paul Kagame, in qualità di presidente dell’Unione Africana, nel summit di Buenos Aires chiede che l’UA venga ammessa a far parte del G 20. Simbolicamente il “piccolo” Rwanda, anche e soprattutto in forza della sua storia di riscatto di questi ultimi 25 anni, dà voce alla voglia della “grande” Africa di entrare nel consesso dei Grandi del Mondo. Quei Grandi e quelle Organizzazioni sovranazionali che nel 1994 permisero, per ignavia e per inconfessabili interessi geopolitici, che in un piccolo e sconosciuto Paese africano si perpetrasse uno dei più tragici massacri della seconda metà del XX secolo. Le immagini di “un fiume di sangue, persone che si uccidevano a vicenda, cadaveri abbandonati senza che nessuno si curasse di seppellirli, un abisso spalancato, un mostro spaventoso, teste mozzate” si irradiarono allora sui televisori di tutto il mondo, portando nelle nostre case il dramma ruandese. Quello che sembrerebbe il commento di un inviato chiamato a coprire quei cento di giorni di follia, è in realtà la sconcertante descrizione che tre giovani veggenti diedero della sconvolgente e profetica visione che ebbero il 15 agosto 1982, durante una delle apparizioni della Madonna, riconosciute ufficialmente dalla Chiesa, che si susseguirono dal 1981 e al 1983, a Kibeho nel sud del Rwanda. Di quel periodo ricordiamo l’incontro con tre giovani seminaristi ruandesi, Paolo, Roberto e Cirillo, sottratti al massacro e portati in salvo dal ponte aereo organizzato da Maria Pia Fanfani, presidente della CRI, ospiti della comunità di Grosio.Anni dopo, nel 2003, il primo viaggio in Rwanda ci portò a misurarci con i segni esteriori lasciati dalla guerra civile, ma, ancor più, con le lacerazioni interiori che la stessa aveva lasciato nelle persone con cui venivamo a contatto. Molte, qualunque fosse la loro appartenenza tra le parti in conflitto, piangevano la morte cruenta di qualche congiunto. Una sorta di cappa opprimeva la comunità ruandese prigioniera dei fantasmi del suo recente passato, tanto che la diffidenza e la paura dell’altro erano la cifra caratterizzante i rapporti interpersonali, di cui noi stessi eravamo, di volta in volta, testimoni e vittime. Nelle successive missioni compiute con l’Ass. Kwizera, abbiamo assistito al progredire, lento ma deciso, nella ricostruzione delle strutture dello Stato e nella ricucitura lenta, sofferta, a volte combattuta, del tessuto sociale lacerato da tanto sangue versato. Oggi, alla quindicesima missione, siamo testimoni di un Rwanda diverso. Pur tra immancabili contraddizioni, siamo in presenza di un Paese che sta recuperando un clima comunitario più confidente e che legittimamente si accredita, per i progressi sociali (sanità ed istruzione) ed economici conseguiti, come esempio di sviluppo per l’intero continente. Se gli osservatori più critici non mancano di sottolineare i ritardi ancora evidenti sul terreno delle conquiste democratiche – ma attenzione a voler misurare l’Africa con i nostri criteri di giudizio occidentali- ci pare di poter cogliere, anche su questo fronte, tanti piccoli segnali che possono preludere a possibili positivi sviluppi.Uno importante:la grazia recentemente concessa a due importanti oppositori, il cantante Kizito Mihigo, e la candidata alle presidenziali del 2010, Victoire Ingabire, condannati rispettivamente a 10 e 15 anni di carcere per "complotto e cospirazione contro il governo”. L’altro simbolico: l’abolizione, l’anno scorso, del visto d’entrata in Rwanda e, quest’anno, della compilazione di un questionario informativo su cosa si viene a fare, dove si alloggia, chi sono i referenti locali. Che la prossima sfida sia appunto quella di attivare un processo che porti a una dinamica di potere pienamente democratica, ne è cosciente lo stesso presidente, Paul Kagame, l’artefice del successo del Rwanda, spesso accusato di essere un dittatore. In una recente intervista al settimanale Jeune Afrique, dopo aver sottolineato i buoni risultati conseguiti in questi venticinque anni e aver richiamato i suoi ministri e amministratori “a fare ancora meglio”, Kagame non ha mancato di sottolineare come democrazia e crescita debbano marciare di pari passo, perché “non c'è democrazia se le condizioni socio-economiche non sono soddisfatte e le disuguaglianze sono troppo grandi. E non c'è crescita sostenibile senza lo stato di diritto”. Ecco quindi le prossime sfide che attendono il Rwanda se si vuole dare continuità al trend di crescita economica intrapresa: ridurre le disuguaglianze tra città e campagne e marciare decisi sulla strada che porta a uno stato di diritto, senza dimenticare la necessità di creare una classe politica che se ne faccia interprete.

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