Riprendiamo nostro articolo apparso su Il Settimanale della diocesi di Como.
Il
30 settembre 2018, il presidente del Rwanda, Paul Kagame, in qualità di
presidente dell’Unione Africana, nel summit di Buenos Aires chiede che l’UA
venga ammessa a far parte del G 20. Simbolicamente il “piccolo” Rwanda, anche e
soprattutto in forza della sua storia di riscatto di questi ultimi 25 anni, dà
voce alla voglia della “grande” Africa di entrare nel consesso dei Grandi del
Mondo. Quei Grandi e quelle Organizzazioni sovranazionali che nel 1994
permisero, per ignavia e per inconfessabili interessi geopolitici, che in un
piccolo e sconosciuto Paese africano si perpetrasse uno dei più tragici
massacri della seconda metà del XX secolo. Le immagini di “un fiume di sangue, persone che si uccidevano a vicenda, cadaveri abbandonati
senza che nessuno si curasse di seppellirli, un abisso spalancato, un mostro
spaventoso, teste mozzate” si irradiarono allora sui televisori di tutto il
mondo, portando nelle nostre case il dramma ruandese. Quello che sembrerebbe il
commento di un inviato chiamato a coprire quei cento di giorni di follia, è in
realtà la sconcertante descrizione che tre giovani veggenti diedero della
sconvolgente e profetica visione che ebbero il 15 agosto 1982, durante una delle
apparizioni della Madonna, riconosciute ufficialmente dalla Chiesa, che si
susseguirono dal 1981 e al 1983, a Kibeho nel sud del Rwanda. Di quel periodo
ricordiamo l’incontro con tre giovani seminaristi ruandesi, Paolo, Roberto e
Cirillo, sottratti al massacro e portati in salvo dal ponte aereo organizzato
da Maria Pia Fanfani, presidente della CRI, ospiti della comunità di Grosio.Anni
dopo, nel 2003, il primo viaggio in Rwanda ci portò a misurarci con i segni
esteriori lasciati dalla guerra civile, ma, ancor più, con le lacerazioni
interiori che la stessa aveva lasciato nelle persone con cui venivamo a
contatto. Molte, qualunque fosse la loro appartenenza tra le parti in
conflitto, piangevano la morte cruenta di qualche congiunto. Una sorta di cappa
opprimeva la comunità ruandese prigioniera dei fantasmi del suo recente passato,
tanto che la diffidenza e la paura dell’altro erano la cifra caratterizzante i
rapporti interpersonali, di cui noi stessi eravamo, di volta in volta,
testimoni e vittime. Nelle successive missioni compiute con l’Ass. Kwizera, abbiamo
assistito al progredire, lento ma deciso, nella ricostruzione delle strutture
dello Stato e nella ricucitura lenta, sofferta, a volte combattuta, del tessuto
sociale lacerato da tanto sangue versato. Oggi, alla quindicesima missione,
siamo testimoni di un Rwanda diverso. Pur tra immancabili contraddizioni, siamo
in presenza di un Paese che sta recuperando un clima comunitario più confidente
e che legittimamente si accredita, per i progressi sociali (sanità ed
istruzione) ed economici conseguiti, come esempio di sviluppo per l’intero
continente. Se gli osservatori più critici non mancano di sottolineare i
ritardi ancora evidenti sul terreno delle conquiste democratiche – ma
attenzione a voler misurare l’Africa con i nostri criteri di giudizio
occidentali- ci pare di poter cogliere, anche su questo fronte, tanti piccoli
segnali che possono preludere a possibili positivi sviluppi.Uno importante:la
grazia recentemente concessa a due importanti oppositori, il cantante Kizito
Mihigo, e la candidata alle presidenziali del 2010, Victoire Ingabire,
condannati rispettivamente a 10 e 15 anni di carcere per "complotto e
cospirazione contro il governo”. L’altro simbolico: l’abolizione, l’anno scorso,
del visto d’entrata in Rwanda e, quest’anno, della compilazione di un
questionario informativo su cosa si viene a fare, dove si alloggia, chi sono i
referenti locali. Che la prossima sfida sia appunto quella di attivare un
processo che porti a una dinamica di potere pienamente democratica, ne è
cosciente lo stesso presidente, Paul Kagame, l’artefice del successo del Rwanda,
spesso accusato di essere un dittatore. In una recente intervista al
settimanale Jeune Afrique, dopo aver sottolineato i buoni risultati conseguiti
in questi venticinque anni e aver richiamato i suoi ministri e amministratori
“a fare ancora meglio”, Kagame non ha mancato di sottolineare come democrazia e
crescita debbano marciare di pari passo, perché “non c'è democrazia se le condizioni
socio-economiche non sono soddisfatte e le disuguaglianze sono troppo grandi. E
non c'è crescita sostenibile senza lo stato di diritto”. Ecco quindi le
prossime sfide che attendono il Rwanda se si vuole dare continuità al trend di
crescita economica intrapresa: ridurre le disuguaglianze tra città e campagne e
marciare decisi sulla strada che porta a uno stato di diritto, senza
dimenticare la necessità di creare una classe politica che se ne faccia
interprete.
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