Riproponiamo ampi stralci dell'intervista rilasciata a Vatican Insider da monsignor Servilien Nzakamwita, vescovo di Byumba, tra i padri del Sinodo dei giovani.
Eccellenza come si
vive oggi in Ruanda, venticinque anni dopo il genocidio?
«Dopo venticinque
anni la pace è ritornata. Attualmente la situazione è tranquilla, direi una
calma che ci fa sperare per il bene. Ma abbiamo vissuto dei momenti terribili.
Sono passati molti anni da quel tragico 1994 ma negli occhi di tutti i ruandesi
c’è ancora l’immagine della morte e del dolore che ha colpito il nostro popolo.
È stato un lungo e difficile cammino di riconciliazione ma siamo contenti che
questo sia avvenuto. Abbiamo lavorato, come Chiesa locale, ad un processo di
riconciliazione necessario e fondamentale per ritornare a vivere insieme».
Come è avvenuto
questo processo di riconciliazione?
«Nel 1994 il
Ruanda sprofondò nel baratro con il massacro dei Tutsi ad opera della
maggioranza Hutu. In soli cento giorni furono uccise a colpi di machete almeno
800mila persone. Il tessuto sociale era completamente lacerato. L’obiettivo
prioritario era di pacificare la popolazione e invitare i cristiani a
rivolgersi a Dio con un atteggiamento di conversione e riconciliazione. La guerra
aveva distrutto tutto: abitazioni, strutture religiose, scuole, ospedali e
centri sanitari… Inoltre, la diocesi aveva perduto quasi tutti i suoi preti, ne
rimanevano soltanto tre. Ho chiesto aiuto alle diocesi dei paesi vicini per
poter riaprire le parrocchie. A distanza di 20 anni dal genocidio i danni sono
ancora evidenti. Ci sono più donne che uomini, donne che hanno visto morire
sotto i loro occhi figli, mariti, padri, stuprate da uomini affetti da Aids.
Molte sono impazzite e i figli nati da queste unioni sono oggi sbandati e
ragazzi di strada. Il tessuto sociale è molto complicato. Ora, grazie anche al
sostegno di molte persone e amici, stiamo tornando ad una normalità che allora
sembrava impossibile. Vorrei ricordare gli amici torinesi Franco e Annalisa
Schiffo che da vent’anni mi stanno aiutando nell’accompagnare le famiglie della
mia diocesi in un percorso di riconciliazione».
Qual è stato il
ruolo della Chiesa in questo lungo e difficile cammino?
«Abbiamo pregato
perché il Signore ci sostenesse. Il processo di riconciliazione non è solo
umano ma anche divino. Solo con il sostegno di Dio, ricercato ed evocato in
questo tempo di ricostruzione, abbiamo avuto la forza per impegnarci a dare un
volto umano alla convivenza tra etnie, popoli, tribù e famiglie. Dopo
venticinque anni il Paese ha riscoperto la pace, le persone hanno ripreso le
loro attività, molte si sono riconciliate. La comunità cristiana è impegnata a
consolidare il clima di pace e fraternità. Soprattutto con i giovani abbiamo
fatto un cammino duraturo e profondo: forum, seminari, settimane di incontri
con le differenti etnie, davvero un momento di grazia dopo un tempo di morte e
dolori indicibili».
Lei è al Sinodo
dei giovani, cosa si aspetta da questa assemblea e quale potrà essere, secondo
lei, l’apporto delle nuove generazioni al mondo?
«Siamo circa 300
vescovi che discutono, con laici, presbiteri e religiosi giovani e adulti,
della pastorale, l’educazione, la fede e la vita dei giovani. Un momento bello
di incontro e riflessione. Universale ed ecumenico, uno scambio davvero aperto
anche su tematiche complesse. Il tema di fondo è come la chiesa riuscirà a
rispondere alla vocazione dei giovani, vita famigliare o sacerdotale. alle speranze
di una vita da costruire nella costruzione di relazioni autentiche in un clima
di pace e dialogo. Non è facile perché linguaggi e pensieri sono spesso diversi
da noi adulti, vescovi, preti, educatori e genitori e facciamo a fatica a
comprendere le domande, i sogni e le speranze dei giovani. Sono però fiducioso
c’è vitalità, un amore per Cristo e la Chiesa, un sostegno a Papa Francesco
davvero autentico e ho visto una volontà di impegno nel camminare sulle strade
del mondo. Il cammino per i cristiani è fondamentale e per noi africani una
necessità che deve diventare stile di vita».
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