"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI


giovedì 30 agosto 2018

Le sfide che attendono Kagame

Riportiamo qui di seguito il capitolo conclusivo del libro Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.

Le sfide che attendono Kagame
Kagame: leader visionario o dittatore?
Autocrate visionario per gli uni, dittatore sanguinario per gli altri, uno dei 100 uomini più influenti dell’anno 2009 per la rivista Time, artefice, secondo l’ex premier britannico, Tony Blair, grazie alla sua “leadership visionaria”, d’aver reso il Rwanda “stabile, prospero, i cui parametri di scolarità e sanità stanno rapidamente migliorando, e l'economia sta conoscendo un vero boom”. All’opposto il Nobel per l’economia 2015, Angus Deaton, ne ha parlato, cinicamente, in questi termini: “Nel Rwanda di oggi, il presidente Paul Kagame ha scoperto come usare il calcolo utilitaristico di Singer contro la sua stessa gente. Fornendo assistenza sanitaria alle madri e ai bambini ruandesi, è diventato uno dei beniamini dell'industria e un perfetto candidato alla fruizione di aiuti umanitari. Essenzialmente, sta “allevando” i bambini ruandesi, permettendo a un maggior numero di loro di vivere in cambio del sostegno alla sua regola antidemocratica e oppressiva. I grandi flussi di aiuti in Africa a volte aiutano i beneficiari previsti, ma aiutano anche a creare dittatori e forniscono loro i mezzi per isolarsi dai bisogni e dai desideri della loro gente” (1).  Ma chi è veramente Paul Kagame? ’ Ne ha fatto un ritratto, con l’abilità dei grandi giornalisti, Jeffey Gettleman in un articolo (2) comparso il 4 settembre 2013 su The New York Times sotto il titolo “L'uomo forte preferito dall'élite globale”, frutto di un incontro di 4 ore nella residenza presidenziale e dei necessari approfondimenti. Paul Kagame viene così descritto.” Spartano, stoico, analitico e austero, passa regolarmente fino alle 2 o 3 ore del mattino a sfogliare i numeri arretrati di The Economist o a studiare i progressi dei villaggi di terra rossa del suo Paese, alla continua ricerca di modi migliori e più efficienti per allungare il miliardo dollari che il suo governo riceve ogni anno dalle nazioni donatrici che lo ritengono un brillante esempio di ciò che il denaro degli aiuti può fare in Africa…. Si è guadagnato la pessima reputazione di uomo spietato e brutale e, mentre i riconoscimenti si sono accumulati, ha letteralmente fatto collassare il suo popolo e ha segretamente sostenuto gruppi di ribelli assassini nel vicino Congo. Almeno, questo è ciò che un numero crescente di critici dice, inclusi funzionari di alto rango delle Nazioni unite e diplomatici.” I critici di Kagame dicono anche che ha eliminato molti dei media indipendenti del Rwanda e imprigionato e perseguito diversi suoi oppositori, in particolare compagni d’arme della prima ora come Kayumba Nyamwasa, ex capo di stato maggiore dell’esercito fuggito in Sud Africa, dove è stato oggetto di un attentato da cui è riuscito a salvarsi nonostante le ferite riportate. "Kagame è diventato stupidamente arrogante", ha detto Nyamwasa a Jeffey Gettleman, elencando “quelli che considerava i più grandi errori di Kagame, incluso l'ingerenza in Congo e l’epurazione di chiunque fosse in disaccordo con lui” sottolineando altresì di non lasciarsi ingannare dall'aria cerebrale di Kagame, che, in realtà, è piuttosto violento, tanto che “le sue truppe avevano paura di lui e in realtà lo odiavano". Un giudizio nel suo complesso, nelle luci e nelle ombre, certificato dallo stesso Kagame che al termine dell’intervista si è accomiatato sussurrando all’intervistatore: "Dio mi ha creato in un modo molto strano”. Qualche anno dopo, in un’intervista al settimanale Jeune Afrique del maggio 2017, Kagame fa di sé questo autoritratto "sono idealista; voglio il meglio, anche se il meglio non è necessariamente realizzabile. Ma, allo stesso tempo, sono realista e pragmatico. Sono consapevole dei miei limiti... so quello che posso e non posso fare, pur perseguendo l'impossibile. Questo è il mio modo di essere e quello dei ruandesi".

Il terzo mandato presidenziale
Dopo essere passato al vaglio di due elezioni presidenziali, nel 2003 e nel 2010, alla scadenza del secondo mandato, come tanti suoi omologhi africani, non ha resistito alla tentazione di perpetuare il suo potere, mettendo mano alla costituzione che prevedeva il limite di due mandati. Una campagna ben orchestrata, in cui i paladini del terzo mandato sostenevano che la riconferma di Kagame alla presidenza avrebbe significato riproporre anche per il futuro il modello vincente che ha fin qui assicurato gli attuali trend di sviluppo, ha promosso una modifica costituzionale per abolire il limite dei due mandati presidenziali. Nel dicembre del 2015, un referendum costituzionale che ha ottenuto il 98,3% di sì, ha dato il via al terzo mandato presidenziale. A nulla sono valse le riserve espresse da Stati Uniti e Unione Europea che, come in altre precedenti occasioni, non hanno sortito alcun effetto sull’uomo forte del Rwanda. Così, all’alba dei sessanta anni, compiuti il 23 novembre 2017, Kagame sì è aggiudicato un altro settennato, vincendo le elezioni con un plebiscitario 98,63%, essendosi spartito il resto dei voti i due altri contendenti nella competizione elettorale. A questo punto anche per il 2017 il Premio Ibrahim per la leadership africana, istituito nel 2006 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim, da assegnare a un leader africano che trasferisce democraticamente il potere lasciando il proprio Paese migliore di prima, non avrà un vincitore, che si sarebbe visto assegnare   5 milioni di dollari (più del triplo dei premi Nobel) da destinare a iniziative umanitarie, ma anche un cospicuo vitalizio di 200mila dollari l'anno. Il presidente Paul Kagame ha iniziato così un nuovo settennato di governo del Rwanda, al quale potranno seguire, alla luce della richiamata riforma costituzionale, altri rinnovi fino ad arrivare al 2034.
Cosà farà in questi anni, quali le sfide che lo attendono?  Non saranno poche e sono state tutte chiaramente evidenziate dalle più autorevoli testate internazionali in sede di presentazione della tornata elettorale presidenziale. Ne ha fatto una sintesi realistica The Economist in un suo articolo (3) impietosamente intitolato Many Africans see Kagame’s Rwanda as a model. They are wrong, (Molti africani vedono il Rwanda di Kagame come un modello. Si sbagliano), in cui, dopo aver riconosciuto gli indubbi meriti della governance ruandese a partire dal 1994, evidenzia le criticità in tema di diritti e libertà democratiche, concludendo con un brutale benservito a Paul Kagame: "Dopo le elezioni l'uomo forte del Rwanda dovrebbe ritirarsi con grazia”. Non crediamo che Kagame aderisca al duro diktat del settimanale britannico, peraltro abituato anche a clamorose giravolte circa i giudizi rilasciati su leader politici internazionali, e ne avrebbe buon motivo non essendoci, allo stato, un’altra figura in grado di garantire al Rwanda una continuità degli standard attuali di vita civile in termini di sicurezza e di trend di sviluppo economico. Sbaglierebbe comunque a sottovalutare e tacitare, sull’onda della schiacciante vittoria, le critiche avanzate da più parti, opponendo i successi a livello di sviluppo economico e di sicurezza. Per cominciare, mentre sulla sicurezza tutti concordano sul clima di tranquillità che si vive in Rwanda, tanto che un recente rapporto della Gallup colloca il Paese al secondo posto in Africa e 11° al mondo tra i paesi percepiti come più sicuri, sui progressi economici non tutti condividono le statistiche ottimistiche del governo, di cui taluni ricercatori hanno evidenziato qualche incongruità di troppo. Critiche che non possono comunque offuscare gli effettivi progressi messi a segno in questi anni, di cui ha contezza chi visiti con continuità il Paese. Semmai Kagame dovrà operare perché lo sviluppo economico avvenga con il coinvolgimento dell’intera società ruandese, sia quella cittadina che quella delle campagne, evitando per quanto possibile che le ricadute economiche interessino solo la ristretta cerchia degli esponenti vicini al gruppo di potere, a cui sono riconducibili tutti i principali business, a partire da quello molto grigio del commercio di minerali, di cui si connota la giovane economia ruandese. Diversamente si corre il rischio che le lacerazioni etniche, che si è tentato di superare con una forte campagna per la creazione di un’identità nazionale ruandese (campagna "Ndi Umunyarwanda – Io sono ruandese"), trovino nuova linfa in una divaricazione su basi economiche, tra ricchi e poveri o tra città e campagne. E' nel campo dello sviluppo economico che Kagame si gioca la sfida maggiore, perché alla lunga, senza una continuità nella crescita e una conseguente equa partecipazione alla spartizione dei relativi frutti, diventa difficile giustificare e far accettare ai ruandesi taluni risvolti negativi, in termini di libertà e rispetto dei diritti civili, che inevitabilmente si accompagnano a uno stile di governance autocratico, quale quello caratterizzante l'attuale governance ruandese.
Sviluppo economico e democrazia
Anche perché fino a quando uno sviluppo socio-economico durevole può prescindere da un quadro certo di libertà democratiche? Seppur la ricerca di economisti e scienziati della politica non sia giunta a dare una risposta certa a questa domanda - ci sono, infatti, esempi a sostegno di una tesi (la Cina continua a progredire pur in presenza di un quadro per niente democratico) o del suo opposto (la Corea del Sud ha accentuato il suo sviluppo economico dopo aver abbandonato la dittatura per incamminarsi sulla strada della democrazia) - alcune riflessioni si possono fare sul futuro del Rwanda. La fotografia del Paese rilasciata dai maggiori osservatori internazionali evidenzia l'irrisolto dilemma della dinamica tra sviluppo economico e sviluppo democratico. I riconosciuti progressi in campo economico, di cui il trend di sviluppo del PIL è solo uno degli indicatori, e sociale (nella sanità, nell’istruzione e in materia di ordine pubblico e sicurezza) non possono, infatti,  far dimenticare il basso livello a cui si collocano due aree che, in senso lato, connotano il livello di vita democratica di un Paese: il livello di  libertà individuali, di associazione  e di espressione e, ancor più, nell’esercizio dei  diritti politici, nella partecipazione alla vita politica e nel livello di libertà e di trasparenza del momento elettorale. Pur non scandalizzandoci che si possa porre mano alla costituzione, anche se non ci sfuggono i rischi che ne potrebbero conseguire, non siamo del tutto sicuri che l'equazione  sia valida e che il futuro debba necessariamente riservare ulteriori trend di sviluppo, senza che intervenga, magari proprio in forza di una riconferma dell'attuale leadership, un parallelo processo di crescita democratica che favorisca una reale partecipazione, nella certezza del diritto, di tutti i ruandesi alla vita politica del Paese e alla condivisione del potere, in un quadro di consolidato rispetto dei diritti individuali. Infatti, anche l'economia, così come la società civile, necessita di un contesto dove vi sia libertà, certezza del diritto e rispetto delle regole. E' lecito chiedersi, quindi, quanto a lungo le autorità politiche sapranno preservare l'area economica da modelli "autoritari" applicati nella vita civile. Perché dovrebbe essere rispettoso della libertà d'impresa e delle proprietà privata chi non applica tali principi quando si tratta della sfera delle libertà personali e della dialettica democratica? Non si sono forse già visti casi di vero e proprio esproprio di fortune private, in violazione di qualsiasi norma? Non siamo forse in presenza di una riproposizione del modello politico vigente quando si assiste a un processo di formazione di veri e propri monopoli, riconducibili all'élite di potere, che frenano in diversi comparti economici una fisiologica concorrenza, e una libertà d'intraprendere? Siamo certi che gli investitori internazionali, attirati dall'attuale riconosciuta facilità di fare impresa, alla lunga non risentano di un simile contesto? Senza dimenticare, da ultimo, la forte correlazione degli aiuti internazionali ai livelli di democrazia applicati nei paesi destinatari, che può portare, come successo di recente anche per il Rwanda, a tagli che sanzionano atti di governo giudicati non in linea con gli standard di governance internazionali. In tal senso, non fa certo testo il trattamento che la comunità internazionale riserva alle violazioni dei diritti umani perpetrati dalla Cina: si può chiudere un occhio sulle malefatte di un Paese con un mercato di oltre un miliardo di consumatori, non certo per uno con dodici milioni di abitanti come il Rwanda. Forse lo sviluppo socio-economico non è così intrinsecamente correlato con un parallelo progresso democratico, ci sono però conferme che l'interrompersi di un ciclo economico favorevole non giova a chi detiene il potere; per questo, nel dubbio, tanto varrebbe non tralasciare l'opzione dell'apertura democratica.
L’ora dell’autocrate ragionevole
Un autocrate ragionevole e, per molti, illuminato quale può essere appunto definito Paul Kagame, forte della grande investitura e dell’oggettivo appoggio della stragrande maggioranza dei ruandesi, dovrebbe essere capace, in presenza di un potere ormai consolidato, anche di quei gesti di “benevolenza” che ne affinino l’immagine, soprattutto a livello internazionale, senza che possa essere messa a rischio la sicurezza interna in cui si trova a vivere il Paese. Un politico attento come il presidente ruandese dovrebbe essere capace di alcuni segnali di apertura, che lungi dall'apparire gesti di debolezza ne confermerebbero al contrario l'autorevolezza. Un passo in questa direzione potrebbe tradursi in un gesto di clemenza verso Victoria Ingabire, piuttosto che del famoso cantante Kizito Mihigo condannato a 10 anni di carcere essendo stato riconosciuto colpevole di "complotto contro il governo”. Un allentamento dei forti vincoli imposti ai media e alle voci della società civile e un’interruzione di certe pratiche, che portano alla scomparsa di oppositori più o meno famosi, non inficerebbero né la credibilità, né l’autorevolezza di un leader riconosciuto e consolidato. Sarebbe altresì fondamentale che Kagame sapesse alimentare quei segnali colti da un profondo conoscitore della realtà africana, padre Giulio Albanese, che in un suo articolo apparso su Avvenire nell’agosto 2017, così descriveva la situazione del Rwanda. “Si sta affermando un graduale processo di democratizzazione "dal basso", frutto della lenta ma sicura maturazione di un’opinione pubblica interna sensibile alla cittadinanza e al superamento dell’etnocentrismo politico. Il fatto che il governo di Kigali continui a essere saldamente nelle mani del Fronte patriottico ruandese (FPR), grazie anche ai successi delle politiche di modernizzazione messe in atto in questi anni dal regime, non esclude scenari inediti alla narrazione giornalistica internazionale. Esiste, infatti, una resistenza democratica locale fatta di piccole realtà rurali e cittadine, espressioni eloquenti della società civile, che, con impegno e determinazione, silenziosamente, contribuisce a modificare i meccanismi di relazioni interetniche, rafforzando il ruolo socioeconomico dei territori e delle comunità autoctone. Si tratta di reti di solidarietà che nascono soprattutto tra i giovani e le donne, nuove mentalità di gestione e innovative pratiche di management sociale; gruppi informali i cui attori mutano e si diversificano costantemente, con una coscienza accresciuta dei loro diritti di cittadinanza". Da ultimo, rimane la sfida decisiva: preparare le condizioni perché alle prossime elezioni, che si terranno nel 2024, Kagame non abbia la necessità di scendere nuovamente in campo, avendo nel frattempo creato le condizioni di una successione, speriamo non dinastica, in grado di raccogliere il testimone per proseguire sulla strada dello sviluppo, della piena riconciliazione nazionale e di definitiva apertura a una governance compiutamente democratica.

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