Secondo uno studio messo a punto dal Lowy
Institute, un think-tank con sede in Australia, il Rwanda è al
sesto posto tra i 98 paesi presi in esame, per aver gestito meglio l'epidemia
di Covid-19. Il Rwanda è l'unico paese africano tra i primi dieci, con gli altri
paesi nell'elenco tra cui Thailandia, Cipro, Islanda e Australia.Già, nell'ottobre dello scorso anno, l' Organizzazione mondiale della sanità (OMS) aveva applaudito il Rwanda "per aver istituito un sistema forte" che ha consentito al paese di "affrontare efficacemente" la pandemia Covid-19. Stati Uniti, Iran, Colombia, Messico e Brasile sono stati tra i peggiori risultati, secondo l'indice. Il Posto di sanità di Mubuga
Lo studio ha misurato una serie di indicatori chiave, inclusi
casi confermati, decessi, casi per milione di persone, decessi per milione di
persone che hanno dato vita al COVID Performance Index. Secondo l'analisi, i livelli di sviluppo economico e le differenze nei sistemi politici
tra i paesi hanno avuto un impatto minore sui risultati rispetto ad altri
indicatori. Invece, popolazioni più piccole, società
coese e istituzioni capaci sono stati i fattori più importanti nel modo in cui
i paesi hanno affrontato la pandemia. Quando il virus è stato segnalato per la prima volta in Rwanda nel
marzo 2020, il governo si è affrettato a imporre restrizioni, incluso un blocco
di sei settimane, per aiutare a contenere la situazione ed evitare una
situazione in cui il sistema sanitario pubblico sarebbe stato sopraffatto. Nei primi giorni della pandemia all'inizio dello scorso
anno, il governo ha istituito una task force a livello ministeriale guidata dal
primo ministro, mentre è stato istituito anche un team multiagenzia per
coordinare quotidianamente l'aspetto tecnico delle cose.Il Rwanda ha anche schierato
migliaia di giovani volontari in
tutto il paese per aiutare i cittadini a rispettare le restrizioni del
Covid-19, mentre una rete già esistente di
migliaia di operatori sanitari di comunità ha svolto un ruolo chiave negli screening e
nel monitoraggio della situazione sul basso.Successivamente
è stato adottato un approccio graduale per riaprire il paese, settore per
settore, mentre i blocchi locali sono stati imposti a parti del paese in
momenti diversi. Attualmente, la stessa capitale Kigali
è in lockdown, dopo un picco di casi registrati una settimana fa. Come parte
dei continui sforzi per rilevare e rallentare la diffusione del virus, giovedì
le autorità hanno annunciato una
campagna di test nella capitale, rivolta
ai giovani e ad altri adulti, dopo che precedentemente uno sforzo simile era stato rivolto agli
anziani e agli altri gruppi vulnerabili a Kigali.
"Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra". Benedetto XVI
venerdì 29 gennaio 2021
Il Rwanda riconosciuto tra i migliori 10 paesi al mondo per il contrasto al Covid
domenica 24 gennaio 2021
La cooperazione allo sviluppo: la solidarietà economica che può aiutare l'Africa
Di fronte alle diverse interpretazioni che possono essere date alle politiche di cooperazione allo sviluppo e al ruolo degli aiuti, riproponiamo questo paragrafo tratto dal libro Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.
Aiutiamoli a casa loro
Di fronte a queste sfide, molti ritengono che una
risposta possibile possa essere quella di concorrere a favorire le condizioni
giudicate presupposto necessario a che le politiche di sviluppo avviate in
Africa abbiano successo: favorire “la qualità delle politiche pubbliche,
l'impegno dei governi a un uso responsabile delle risorse e la capacità dei
cittadini di monitorare il loro operato. La lotta contro la corruzione è
cruciale. La strada è quella di rinforzare le capacità del settore pubblico e
di costruire una massa critica di cittadini informati, stimolando il dialogo su
ciò che funziona in Africa e condividendo conoscenze sulle soluzioni alle sfide
africane. Il futuro dell’Africa si basa sulla conoscenza, l’imprenditorialità e
il buon governo” (5). La concretizzazione di tale approccio è riassumibile
nella formula - Aiutiamoli a casa loro – che, alla prova dei fatti, può
rivelarsi un’efficace politica, a patto che la solidarietà venga declinata
con lo sussidiarietà, intesa come impegno diretto dei governanti e delle
società civili dei paesi destinatari a fare la loro parte, per cessare di
essere mera assistenza e diventare fattore di sviluppo. Una politica che
risponda innanzitutto a un principio di equità e secondariamente a un efficace
utilizzo delle scarse risorse finanziarie disponibili. E', infatti, equo
ricordarci oltre che delle decine di migliaia di migranti economici (che per
correttezza sarebbe bene distinguere dalla minoranza degli aventi diritto alle
forme di protezione internazionale) anche delle centinaia di milioni di
africani, totalmente assenti da ogni dibattito sul fenomeno migratorio, che
rimangono nei rispettivi paesi e lì vogliono costruirsi un futuro dignitoso. Si
pensi in particolare a quell’ultimo miliardo dei 58 paesi più poveri, per la
gran parte piccoli paesi africani, destinati a diventare sempre più poveri in
assenza di adeguati e articolati interventi a sostegno del loro sviluppo (6).
E’ altresì corretto chiedersi quale sia il miglior utilizzo delle ingenti
risorse finanziarie che vengono comunque stanziate dai governi dei paesi di
accoglienza per far fronte ai flussi migratori, tenuto conto del ben diverso
valore di un euro in termini di merci e servizi acquistabili a seconda che lo
stesso sia speso da noi, piuttosto che in Africa. In questa analisi, ci
conforta il mutato clima culturale che si respira da qualche tempo in Italia e
in Europa. Dopo essere stato per lungo tempo un abusato e strumentale slogan
propagandistico, lasciato alla declinazione, non sempre misurata, di talune
forze politiche, “Aiutiamoli a casa loro” sembra conoscere un’improvvisa
riscoperta dopo essere stato sdoganato a livello di dibattito politico e
mediatico da recenti uscite di leader politici da sempre contrari a un simile
approccio al fenomeno migratorio. Merita, al riguardo, ricordare come nel
maggio del 2014, il ministro del Tesoro italiano, Pier Carlo Padoan,
intervenendo in margine al convegno annuale della Banca Africana di
Sviluppo (AfDB), "L'Africa e l'economia mondiale", tenutosi a
Kigali, capitale del Rwanda, dichiarava: “l'Europa dovrebbe fare di più per
migliorare le condizioni delle persone perché possano vivere e lavorare in
sicurezza nei rispettivi paesi d'origine. Questo obiettivo può essere
ottenuto rafforzando e perfezionando il flusso delle risorse in Africa in
modo che ci siano più opportunità di lavoro create in loco piuttosto che essere
ricercate altrove.” Questa affermazione, in palese contrasto con la linea
politica del governo italiano del tempo in materia di migrazioni, non trovava
alcuna eco sulla stampa italiana: tre anni dopo quell’auspicio è stato fatto
proprio dai governanti italiani. Altro episodio. Nell’agosto del 2015 in un
editoriale del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, si potevano leggere
queste parole: “Aiutarli a casa loro, già. Ecco la soluzione geniale. Quasi che
nessuno ci abbia mai pensato prima!” Oggi, forse, quell’editorialista sarebbe
meno irridente nei confronti di un’opzione che sembra trovare conforto anche
nelle affermazioni di Papa Francesco, pronunciate di ritorno dal viaggio in
Colombia del settembre 2017: “E c’è un’ultima cosa che voglio dire, e vale
soprattutto per l’Africa. C’è, nel nostro inconscio collettivo, un motto, un
principio: “L’Africa va sfruttata”. E un capo di governo, su questo, ha detto
una bella verità: “Quelli che fuggono dalla guerra, è un altro problema; ma per
tanti che fuggono dalla fame, facciamo investimenti lì, perché crescano”. Ma
nell’inconscio collettivo c’è che ogni volta che tanti Paesi sviluppati vanno
in Africa, è per sfruttare. Dobbiamo capovolgere questo: l’Africa è amica e va
aiutata a crescere”. Ma come sostenuto dal prof. Alberto Quadrio Curzio,
“Non bisogna però perdere tempo perché la dinamica demografica dell’Africa, pur
essendo in rallentamento, porterà quella popolazione dagli attuali 1,25
miliardi a 2,5 miliardi entro il 2050. Ovvero 5 volte la popolazione europea
attuale. Nel contempo l’attrattività dell’Europa è aumentata raggiungendo fino
a 500mila immigrati annui. Cifra non enorme in quanto pari allo 0,1% della
popolazione della Ue ma tale da creare molti problemi politico-istituzionali e
socio-economici a causa della sostanziale impreparazione europea. Eppure
l’Europa a livello aggregato (Unione più Stati membri) esprime in vari modi il
suo solidarismo al punto che nel 2016 è stato il primo contributore di aiuti
allo sviluppo con 70,5 miliardi di euro pari al 60% del totale mondiale.
L’entità è notevole ma in termini pro-capite piccola perché se tutti andassero
alla popolazione dell’Africa si tratterebbe di 56 euro annui a persona. Non
servirebbe a nulla e perciò bisogna puntare tutto sul profilo qualitativo
declinando l’«esportazione della solidarietà» su due filiere: quella economica,
che va dall’istruzione, alla infrastrutturazione, all’industrializzazione, alla
imprenditorialità; quella civile, che va dalla scuola, alla sanità, alla
salute, alla demografia, alla parità di genere, alla sicurezza. Gradualmente
questi due percorsi di solidarietà economica e civile (Sec) dovrebbero portare
infine alla democrazia nei Paesi che mai l’hanno avuta.” (7) E’ quanto
sostenuto anche dall’ex Amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo
Sviluppo (UNDP), Kemal Derviş, per il quale “ogni soluzione alla sfida della
migrazione deve concentrarsi sulla promozione dello sviluppo nei paesi di
origine dei migranti. Per l'Europa, l'attenzione dovrebbe essere
incentrata sull'Africa, la principale fonte dei flussi migratori”. Uno
sviluppo, quello dell’Africa, che richiederà il perseguimento di maggiore stabilità
politica e pace; investimenti per valorizzare il patrimonio di risorse
naturali; apporto di know-how necessari per sostenere un'accelerazione
significativa della crescita, creazione di quelle condizioni di sicurezza
presupposto per attrarre capitali privati. “Purtroppo – sottolinea Dervis- la
crescita prodotta dall’apporto di investimenti da sola non è risolutiva dei
mali africani, se non vengono previamente risolti i frequenti conflitti che
martoriano il continente e se non si perviene a forme consolidate di stabilità
politica. Di certo un buon andamento dell’economia di un Paese è condizione
necessaria perché s’instauri un clima di pace sociale e di fiducia”.
5) F. Bonaglia e L. Wegner (2014), Africa –Un continente in
movimento”, Il Mulino, Bologna
6) Paul Collier (2007), L’ultimo miliardo-Perché i paesi più poveri
diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli, Laterza, Bari
7) A. Quadrio Curzio (2017), La solidarietà economica che può
aiutare l’Africa, Il Sole 24 ore del 26 luglio 2017
giovedì 21 gennaio 2021
All'asilo Carlin si affianca il parco giochi Otilia Park
martedì 12 gennaio 2021
Ecco le sette regole per viaggiare in Rwanda in tempo di Covid
Ecco le sette cose che dovresti sapere sui viaggi in Rwanda durante questo periodo di pandemia:
1. Compilare un modulo di localizzazione passeggeri prima di mettersi in viaggio
I viaggiatori che arrivano in Rwanda
devono compilare un modulo di localizzazione passeggeri e caricare un
certificato di prova Covid-19 negativo su www.rbc.gov.rw , il sito web
ufficiale del Rwanda Biomedical Center, prima del loro arrivo.
2. All'arrivo
è obbligatorio un test RT-PCR negativo
Tutti i viaggiatori che arrivano in Rwanda
devono avere un certificato Covid-19 negativo. L'unico test accettato è una
reazione a catena della polimerasi in tempo reale (RT-PCR) SARS-CoV 2 eseguita
entro 120 ore dalla partenza. Ciò significa che i viaggiatori devono essere
testati e ottenere risultati entro 5 giorni dal volo. Altri test, come il test
diagnostico rapido (RDT) non sono accettati.
3. Tutti
i viaggiatori vengono testati all'arrivo. Un test costa $ 60
Dopo il volo, è obbligatorio per i
viaggiatori fare nuovamente il test all'aeroporto internazionale di Kigali. Il
Rwanda Biomedical Center (RBC) in collaborazione con l'aeroporto ha stabilito
un test Covid-19 all'interno dell'aeroporto.Il test fatto qui è una reazione a
catena della polimerasi in tempo reale (RT-PCR) e un viaggiatore deve pagare $
60 per questo. Questo importo viene prepagato utilizzando i mezzi online (
rbc.gov.rw) prima che qualcuno si rechi in Rwanda.
4. In
attesa di risultati negli hotel di transito. Il governo ha negoziato prezzi
speciali con gli hotel che vanno da $ 30 a $ 450
Dopo il test in aeroporto, i viaggiatori
procedono verso gli hotel di transito designati dove devono attendere circa 24
ore per ottenere i risultati. Un elenco di questi hotel è disponibile su
rbc.gov.rw. Il governo del Rwanda ha negoziato tariffe speciali per il periodo
di attesa di 24 ore negli hotel. I prezzi vanno da un minimo di $ 30 a $ 450.
5. I
viaggiatori i cui test risultano positivi si sottopongono a cure a proprie
spese
Se i risultati di una persona che
visita il paese sono negativi, è consentito continuare con l'attività che li ha
portati. Ma se il risultato è positivo per (anche se asintomatico), verranno
trattati come indicato nelle Linee Guida Nazionali per la Gestione del Covid-19
fino al completo recupero, a proprie spese. Il Rwanda Biomedical Center
incoraggia tutti i viaggiatori ad avere un'assicurazione di viaggio
internazionale.
6. Screening
alle frontiere per chi utilizza il trasporto terrestre
I viaggiatori provenienti dai paesi vicini
che viaggiano in Rwanda vengono portati in hotel di transito designati da dove
vengono testati per Covid-19. Un test costa $ 60.
7. Risultati
negativi Covid-19 richiesti prima della partenza, per tutti
Tutti i viaggiatori in partenza dal Rwanda devono risultare negativi al Covid-19. L'unico test accettato è una reazione a catena della polimerasi in tempo reale (RT-PCR) SARS-CoV 2 eseguita entro 120 ore prima della partenza. Altri test, come il test diagnostico rapido (RDT), non sono accettati. RBC incoraggia i viaggiatori a prenotare e pagare i loro test almeno 2 giorni prima della partenza tramite la piattaforma online disponibile su rbc.gov.rw.
domenica 3 gennaio 2021
La scomparsa di Pierantonio Costa, il nostro console onorario a Kigali nel 1994
E' morto, venerdì sera in Germania, l'ex console onorario in Rwanda, Pierantonio Costa. Aveva 81 anni ed era stato console onorario a Kigali tra il 1988 e il 2003, vivendo sul campo tutto il periodo della guerra civile. Lo ricordiamo, riproponendo la sua storia come descritta nel nostro libro Dentro il Rwanda.
Pierantonio Costa: il nostro console onorario a Kigali
L’italiano più famoso in Rwanda è sicuramente Pierantonio Costa, per anni console onorario italiano a Kigali, che durante il genocidio ruandese ha portato in salvo 2000 persone, tra cui 375 bambini, come raccontato nel libro La lista del console (ed. Paoline, Milano, 2004), scritto a quattro mani dallo stesso Costa con il giornalista Luciano Scalettari. La sua storia, disnodatasi quasi tutta in terra africana, merita sicuramente d’essere ricordata. Classe 1939, a quindici anni dalla natia Mestre raggiunge il padre nello Zaire. Nel 1960, fa la prima esperienza di guerra africana quando, con alcuni suoi fratelli, si prodiga per traghettare gruppi di profughi congolesi dalla cittadina di Bukavu sulla sponda ruandese del lago Kivu. Allo scoppio della rivoluzione di Pierre Mulele (1964), si trasferisce nel vicino Rwanda, dove metterà radici, sposando una giovane svizzera che gli darà tre figli, e dove inizierà una fortunata carriera imprenditoriale. Dal 1988 assumerà la rappresentanza diplomatica dell’Italia, come console onorario, che manterrà fino al 2003.Sarà anche grazie a questo ruolo e alla correlata immunità diplomatica che Costa avrà modo di mettere in atto tutte le azioni umanitarie, che lo hanno reso famoso, durante i tragici mesi che vanno dal 6 aprile al 21 luglio 1994. Dopo aver portato in salvo gli italiani e diversi occidentali, Costa si trasferisce in Burundi, presso un fratello, e da lì comincia una serie di viaggi, attraverso il Rwanda, per mettere in salvo il maggior numero di persone possibile. Grazie ai privilegi derivanti dalla rappresentanza diplomatica, alla sua rete di conoscenze e alle sue disponibilità finanziarie, sarà in grado di procurare i visti di uscita dal Paese per tutti coloro che fanno ricorso al suo aiuto. E’ lo stesso Costa a raccontare nel suo libro di memoria come operava in quei tragici giorni. “Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi ruandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia deve essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Rwanda e di viaggiare col buio”. Agendo di concerto con rappresentanti della Croce Rossa e di svariate Ong, sempre sostenuto in questa sua opera umanitaria dal figlio Olivier, Costa, alla fine del genocidio, avrà salvato quasi 2000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio della Croce Rossa, ma si troverà anche ad aver sacrificato beni per oltre 3 milioni di dollari. La sua opera gli varrà la medaglia d’oro al valore civile per gli italiani portati in salvo e analoga onorificenza da parte del Belgio. Pierantonio Costa è anche ricordato con un albero a lui dedicato nel Giardino dei Giusti, dove si fa memoria di quei "Giusti" che hanno lottato contro i crimini commessi contro l'Umanità, che hanno aiutato a salvare altre vite umane e che hanno cercato di difendere la dignità dell'uomo nelle situazioni di "Male estremo" nel mondo.