Ieri, il presidente Paul Kagame, intervenendo al Summit del G20 a Buenos Aires ha chiesto, nella sua qualità di presidente dell'Unione Africana, ai leaders presenti di includere l'Africa nei meccanismi per combattere a livello mondiale i flussi finanziari illeciti che costano al continente circa 50 miliardi di dollari all'anno. Sull'argomento, proponiamo un estratto tratto dal libro Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.
Uno dei rischi che accompagnano la cooperazione internazionale è che gli aiuti che i paesi sostenitori indirizzano verso i paesi africani finiscano per la gran parte nelle tasche dei numerosi governanti corrotti, spesso pure incapaci, che allignano nel continente africano. Simili malversazioni non possono però mettere discussione la politica degli aiuti, per due ordini di ragioni. La prima: se togliamo ai paesi africani la possibilità di contare sugli aiuti esteri, li priviamo dell’unica vera e reale occasione di crescita delle loro economia e dello sviluppo delle rispettive società che ne potrebbe conseguire, lasciando come unica alternativa quella di incentivare le migrazioni verso l’Europa alla ricerca di nuove prospettive di vita. A quel punto il problema graverebbe in toto sull’Europa, cui spetterebbe dare risposte al fenomeno migratorio, senza peraltro poter contare sulla leva dell’aiutiamoli a casa loro, intesa nella migliore delle sue accezioni, che, allo stato, rimane l’unica reale alternativa all'accoglienza incondizionata, con tutte le ricadute da tutti conosciute.
La seconda: tagliare gli aiuti, perché non si è in grado di assicurare che gli stessi siano correttamente finalizzati, significa alzare bandiera bianca di fronte alla diffusa corruzione del ceto politico e burocratico dei paesi africani e, di nuovo, abbandonare quei paesi a se stessi e ai loro problemi. In realtà, i paesi donatori avrebbero gli strumenti per intervenire su entrambi i fronti, a patto che, superando ogni recondito falso senso di colpa circa il passato coloniale, siano disposti a interventi anche “invasivi”su quei paesi: nella gran parte dei casi non si tratta di violare una inesistente sovranità nazionale, ma molto più semplicemente la suscettibilità dell’autocrate locale. Gli aiuti erogati, preferibilmente ai bilanci dello stato, dovrebbero essere condizionati a standard comportamentali, possibilmente condivisi dalla comunità dei donatori, a cui i governanti africani dovrebbero sottostare e su cui dovrebbero vigilare, in primis, autorità internazionali indipendenti e su cui dovrebbe farsi sentire anche la società civile locale, il cui sviluppo dovrebbe trovare adeguato spazio nei programmi d’intervento dei paesi donatori. Senza dimenticare che quando si realizza un utilizzo corretto degli aiuti ricevuti, per capacità dei governanti e/ o per la vigilanza dei donatori, si innesca un circolo virtuoso, in cui il buon uso fatto degli aiuti ricevuti ne richiama di nuovi: ne è una conferma il Rwanda, giudicato dal Forum economico di Davos uno dei migliori utilizzatori al mondo (7 ° nella classifica mondiale) dei fondi ricevuti dalla comunità internazionale. I paesi donatori possono dire la loro anche sul fronte del contrasto delle diffusa corruzione nella classe dirigente africana. Si prenda il caso, citato dall'africanista Anna Bono in un suo recente articolo, di quei due generali del Sud Sudan, avversari in patria nell'immancabile guerra civile africana, che si trovano quasi condomini a Nairobi, dove si sono acquistati un appartamento milionario che il loro stipendio, di qualche decina di migliaia di dollari annui, mai avrebbe permesso loro di acquistare, se non grazie alle integrazioni derivanti dalla corruzione. Ebbene, se le autorità keniane fossero state costrette a rispettare le normative internazionali antiriciclaggio che si applicano alle Persone esposte politicamente (PEP-Politically Exposed Person), emanate a livello internazionale dal GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale in inglese FATF -Financial Action Task Force), forse quella transazione immobiliare non sarebbe stata possibile. Infatti, l’adesione dello stesso Kenya all’ESAAMLG, il gruppo dei paesi dell’Africa orientale e meridionale che si sono impegnati a dare attuazione alle 40 raccomandazione dello stesso GAFI per il contrasto del riciclaggio del denaro di fondi illeciti o ad altri reati, quali la corruzione o concussione, avrebbe appunto richiesto il blocco della transazione. E come quella transazione non sarebbero possibili le numerose altre transazioni finanziarie che avvengono a tutte le latitudini da parte di autocrati e loro parenti. Di per sé le normative a livello internazionale ci sarebbero, il problema è tutta nella volontà dei singoli paesi, occidentali ed africani, nell’applicarle e, soprattutto, con quale grado di incisività. Infatti, quanti governanti africani possiedono, direttamente o in maniera schermata, immobili a Parigi, Londra o New York? Senza peraltro dimenticare che a fronte dei corrotti, esistono sempre i corruttori, che nel caso saremmo noi occidentali, sempre pronti ad allungare una mazzetta, più o meno grande, per accaparrarsi un buon affare. Purtroppo, qualche fascicolo aperto per corruzione internazionale è giacente anche presso i tribunali italiani.
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