Proponiamo la sintesi introduttiva al recente IL CAOS DELLE MIGRAZIONI, LE MIGRAZIONI NEL CAOS. VIII
Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo ( ed. Cantagalli, pag. 219 euro 14), curata da Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio Cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa.
I grandi fenomeni
migratori della nostre epoca sono davanti ai nostri occhi, ma abbiamo
ugualmente la sensazione di non saperli spiegare fino in fondo. Conosciamo i
dati, anche se solo pochi pazienti specialisti si sforzano di confrontarli e di
spiegarli adeguatamente ed anche i mass media ne trattano in modo superficiale
ed emotivo, ma i soli dati non bastano a spiegare questo grande fenomeno
destinato a cambiare alla radice l’assetto mondiale e interno alle nostre
società occidentali. La sensazione diffusa è che “dietro” ci sia qualcosa e che
quanto è presentato come un fenomeno improvviso e spontaneo nasconda invece una
organizzazione e perfino una pianificazione.
Le motivazioni
economiche ci sono ed influenzano il fenomeno, ma non lo spiegano
completamente. Dal punto di vista economico rimangono molti angoli bui. Gli
immigrati clandestini che provengono per esempio dal Senegal o dal Ghana, ossia
da Paesi non in preda a conflitti e con una discreta prospettiva di crescita
economica per il futuro, arrivano in Paesi come l’Italia ove il Pil pro capite
è in picchiata dal 2001 e la disoccupazioni molto accentuata. I motivi
economici non spiegano migrazioni di questo tipo. Non spiegano nemmeno le
supposte ragioni economiche dell’accoglienza. Il costo dell’accoglienza di un
immigrato è superiore al beneficio economico che egli può dare al Paese che lo
accoglie. Non è vero il luogo comune che gli immigrati garantiscono il
pagamento del sistema pensionistico in un Paese, come l’Italia per esempio, in
cui la fascia della popolazione lavorativa si assottiglia rispetto a quella a
riposo. Gli immigrati non rimpiazzano le culle vuote, un immigrato non
sostituisce un mancato neonato. Dal punto di vista pensionistico egli fornisce
contributi al sistema previdenziale soltanto per la quota, minoritaria, assunta
regolarmente e nel frattempo le spese di accoglienza corrodono in partenza il
possibile beneficio futuro. Non è nemmeno vero che arrivino in Europa solo i
poveri, che nei loro Paesi di origine morirebbero di fame. Ci sono anche questi
casi, ma i dati mostrano che spesso a partire sono individui abbastanza
benestanti desiderosi di migliorare ulteriormente la propria situazione e non
solo di sopravvivere. Le tariffe dei trafficanti di persone non sono
accessibili a tutti.
Spiegazioni
sociologiche di comodo, come per esempio che i migranti fuggono da Paesi
impoveriti dallo sfruttamento occidentale che li ha colonizzati a lungo
politicamente e poi economicamente, non reggono. E’ evidente infatti che le
difficoltà nello sviluppo di alcuni Paesi, per esempio africani, sono anche
endogene e si chiamano corruzione, tribalismo, superstizioni ancestrali. Le
interpretazioni pauperista e terzomondista non sono utili a spiegare l’attuale
esodo.
Accanto alle cause
economiche o sociali ci sono le cause politiche o meglio di geopolitica. A dire
il vero i profughi che fuggono da queste situazioni e che ottengono asilo nel
Paese di accoglienza sono pochi, dato che la grande massa di immigrati è
costituita soprattutto da irregolari. E’ noto tuttavia che dalla Siria e
dall’Iraq, o dall’Eritrea e dalla Nigeria, la situazione politica, e quindi il
pericolo di morte o di possibile persecuzione, è causa principale delle fughe.
Da questo punto di vista occorre segnalare la responsabilità politica delle
principali potenze. Difficile negare che la destabilizzazione dell’Africa
settentrionale e della Libia in particolare, oppure il disordine venutosi a
creare in Iraq o la nascita del sanguinario califfato dell’ISIS tra Siria ed
Iraq nascondano pesanti responsabilità delle potenze soprattutto occidentali.
Le migrazioni da questi luoghi possono essere considerate forzate dalla
situazione venutasi a creare e, forse, addirittura pianificate. Come non considerare
da questo punto di vista l’estinzione del cristianesimo in Medio Oriente? Né si
può tacere l’inerzia della politica internazionale rispetto alle efferatezze
perpetrate in Eritrea e in Nigeria.
Man mano che ci si
addentra nel problema delle migrazioni epocali del XXI secolo ci si rende
sempre più conto che non si tratta di fenomeni spontanei, prodotti da
situazioni oggettive venutesi a creare per cause di forza maggiore, ma di
qualcosa di voluto o addirittura di imposto.
Torniamo alle
cause antropologiche dell’emigrazione, come per esempio la denatalità delle
società occidentali che, sia per motivi lavorativi sia ancor più per motivi di
rimpiazzo generazionale onde evitare un saldo demografico persistentemente
negativo, si auspica essere compensata dai nuovi arrivati che, tra l’altro,
attualmente sono in media più prolifici di noi. Questa situazione di un vuoto
che deve essere riempito non è nata però spontaneamente ma è stata pianificata
e voluta. C’è stato per decenni un forte impegno degli organismi e delle
agenzie internazionali, dei governi, delle grandi fondazioni statunitensi e non
solo per disincentivare la famiglia e la natalità, per promuovere l’aborto e la
contraccezione, per valorizzare stili di vita individualisti e sterili. Si
tratta di fenomeni che i nostri precedenti Rapporti hanno documentato nel
dettaglio, a cominciare dalla trasformazione della concezione della donna, alla
promozione forzata e sistematica dell’ideologia del gender, ai progetti di
transumanesimo finanziati a livello mondiale[2].
Se quindi qualcuno sostiene che le migrazioni hanno come causa la necessità di
colmare il gap demografico dell’Occidente, si sappia che però questo gap
demografico è stato voluto e, forse, anche allo scopo di produrre
artificialmente una “necessità” per le migrazioni.
I fenomeni
migratori ormai sono strutturati e organizzati. C’è una rete di delinquenza e
di illegalità che li gestisce a livello internazionale e ci sono perfino
tariffe a seconda delle varie destinazioni in cui si vuole arrivare. Ciò non elimina,
naturalmente, il rischio e non evita che i migranti si sottopongano a viaggi
dalle caratteristiche disumane, anzi spesso tutto questo viene aggravato dalla
spietatezza delle organizzazioni del traffico clandestino. Dice però che
sarebbe possibile attuare nei confronti di queste organizzazioni una comune
azione di polizia, che finora non è stata mai nemmeno tentata. L’esistenza di
queste organizzazioni, la loro impunità in quanto al di fuori di ogni controllo
politico, dimostra che le migrazioni sono un fenomeno pianificato, che si fonda
certamente su bisogni reali ma non casuali.
All’arrivo nei
Paesi ospitanti la maggior parte degli immigrati è clandestina. I profughi e
richiedenti asilo sono una stretta minoranza. Il flusso dei clandestini è
talmente forte che è quasi impossibile da arginare. Essi stessi scappano spesso
dai Centri di prima accoglienza se la loro meta non è il Paese dove per primo
sono approdati. I tempi per esaminare il loro status sono molto lunghi e
costosi. Sta emergendo l’idea condivisa che anche chi espatria semplicemente
per avere una vita migliore che in patria non gli è possibile ottenere, ossia
chi non è profugo o richiedente asilo, abbia diritto all’assistenza umanitaria,
all’accoglienza e all’integrazione. Però la categoria di clandestino è
applicabile ad un numero imprecisato di persone, ogni contingentamento diventa
impossibile così come ogni accertamento o selezione all’ingresso. Se un Paese
elimina la categoria di clandestino diventa meta di una migrazione dalle
proporzioni incalcolabili. Ne diventa, in altri termini, vittima e non attore.
Il principio mette in pericolo il concetto di bene comune e impedisce alle
autorità politiche di perseguirlo. Questo non può essere accettato.
Oltre la fase
dell’accoglienza c’è poi il problema dell’integrazione e su questo punto le
situazioni e le visioni dei Paesi occidentali di immigrazione sono molto
differenti tra loro. Il sistema tedesco funziona abbastanza bene, quello
italiano è semplicemente inesistente. Manca però soprattutto una idea condivisa
di integrazione. Cosa significa questa parola? La soluzione multiculturalista
ha fallito ma non è stata sostituita da nessun’altra. In questo si nota la
principale deficienza dei Paesi occidentali. La soluzione multiculturalista
consisteva nell’accogliere gruppi omogenei di immigrati per cultura e religione
e permettere loro di continuare nei Paesi ospitanti a praticare le loro forme
di integrazione sociale per gruppi chiusi. Qualcuno aveva parlato di
“balcanizzazione”. Negli Stati europei ci sarebbero numerose enclaves autonome
e con vita propria. Del resto gli immigrati di oggi mantengono i rapporti con i
Paesi di origine tramite internet, skype e i telefoni cellulari e fanno più
figli delle famiglie dei Paesi ospitanti: questo rende molto difficile il
processo di integrazione. Essi possono rimanere quello che sono, cercando
magari di sfruttare i vantaggi dello Stato sociale occidentale. Per questi
motivi molti osservatori dicono che l’integrazione è impossibile.
Uno dei motivi per
cui essa è difficile o impossibile è il vuoto culturale dei Paesi occidentali
ospitanti. La loro mancanza di identità, franata sotto la pressione del
laicismo e dell’individualismo nichilista, fa in modo che essi non abbiano
nulla da opporre e proporre ai nuovi arrivati. Nel pluralismo esasperato delle
società occidentali vengono accettate anche visioni culturali e pratiche
sociali inaccettabili, come per esempio il fenomeno delle spose-bambine o la
poligamia. In Inghilterra la sharia islamica è accettata nel
sistema giudiziario del common low. Il divieto francese di esporre
pubblicamente simboli religiosi, se da un lato esprime un laicismo forte ed
aggressivo che assomiglia esso stesso ad una religione così contraddicendosi,
dall’altro rivela un vuoto di proposta, come se la laïcité fosse
una pecie di nudité.
La prospettiva,
quindi, delle società occidentali del futuro è quella multiculturale e
multireligiosa, che oggi viene presentata come situazione ottimale e di
ricchezza culturale per tutti. La diversità, si dice, è un bene e dalla
rispettive diversità tutti trovano giovamento. La società monoculturale o a
cultura prevalente viene considerata superata, asfittica e bigotta. Gli
organismi internazionali e i centri di potere mondiali premono in questo senso,
sicché la società del futuro sarà multiculturale e multireligiosa in modo
forzato e imposto, e le migrazioni sembrano funzionali a questo progetto. Ci
sono nazioni e Stati che cercano di reagire alla prospettiva multiculturale,
cercando di difendere la propria identità nazionale e storica in modo da
renderla anche compatibile con il progresso economico che dissuade
dall’isolazionismo. E’ questo il caso dei Paesi europei orientali, più legati
che non quelli occidentali alla propria identità nazionale e ancora immuni
dall’influenza appiattente dell’appartenenza all’Unione europea. Quest’ultima
ha di fatto lavorato finora contro le identità nazionali, nel tentativo di
creare una super-cultura europea trasversale creata a tavolino dalle élites
burocratiche di Bruxelles e dai centri di potere economico piuttosto che nata
dal basso, dalla vita stessa delle nazioni. L’appiattimento culturale dentro
l’Unione europea fa da specchio all’ingresso molto numeroso di immigrati allo
scopo di concretizzare una società europea multiculturale. E’, appunto, la
multiculturalità imposta.
Non è però detto
che una società multiculturale sia più pacifica, più costruttiva e migliore.
Può essere anche più conflittuale ed è per questo che il possibile passaggio
successivo potrebbe essere di costruire una nuova cultura convenzionale e una
nuova religione civile ove far convergere tutti i cittadini. Una specie di
nuovo progetto kantiano per una “pace perpetua”, oppure qualcosa che si
avvicina agli obiettivi massonici e gnostici di una religione universale che
ponga fine ai conflitti culturali e religiosi unificando tutti in una super
cultura e in una super religione dell’umanità. Da Saint Simon a Comte molti in
passato si sono impegnati in questo infausto compito. La società multiculturale
allora non sarebbe che un passaggio verso una società del pensiero unico,
gestita dagli organismi internazionali e dai centri di potere mondiali e
imposta a tutte le nazioni, indebolite al proprio interno dal
multiculturalismo.
In questo contesto
un approccio particolare richiede l’Islam. Non è accettabile una islamizzazione
dei Paesi europei e quindi sono indispensabili forme particolari di politiche
migratorie in riferimento all’Islam. Questa religione ha aspetti di
integralismo incompatibili sia con la storia dell’Occidente sia con il
cristianesimo. E’ vero che l’Europa stessa ha anche storicamente delle
componenti musulmane, ma nel passato queste sono state integrate dentro la
visione cristiana. Si pensi, per esempio, alla filosofia di Averroè che, lasciata
a se stessa, avrebbe creato numerosi problemi sia alla religione cristiana che
alla società e che invece fu superata dalla sintesi cattolica di San Tommaso
d’Aquino. L’islam contiene inoltre una visione non personalistica di Dio che
invita solo alla sottomissione e non anche alla relazione. Ecco perché, come
ebbe a dire Benedetto XVI a Regensburg nel 2006, esso non sempre si presta al
rapporto con la ragione, rapporto su cui di fonda la distinzione (ma non la
separazione) tra natura e sovra-natura, tra mondo e Chiesa su cui a sua volta
si fonda la sana e legittima laicità. L’Islam non garantisce la legge morale
naturale in tutti i suoi aspetti, né sostiene che la legge dello Stato debba
rispettare i doveri e diritti della persona umana. Per la tradizione occidentale
e cristiana il diritto di famiglia precede quello dello Stato e anche quello
della religione, ma così non è nell’Islam. Infine c’è il tema della violenza[3].
Nell’Islam non esiste una autorità dottrinale unica, quindi il Corano viene
letto in diversi modi. Non ci sono dubbi che esso contenga anche sure che
invitano alla violenza, ma ciò non impedisce che esista, almeno in linea
teorica, un Islam moderato. Però la mancanza di una unica autorità islamica non
impedirà che oggi e in futuro si dia anche un Islam aggressivo, esclusivista e
violento, soprattutto contro ebrei e cristiani.
Nel panorama delle
politiche migratorie e della futura imposta società multiculturale e
multireligiosa l’Islam richiede quindi una valutazione particolare a cui la
politica degli Stati occidentali non è preparata. In occasione dei numerosi
attentati terroristici di matrice islamica si è notato una sottovalutazione del
fenomeno, come se l’Islam c’entrasse poco o solo per motivi occasionali. Non
c’è né una indagine precisa su chi finanzia la costruzione delle moschee, né un
controllo su di esse e sugli altri centri cultuali islamici in Europa come per
esempio le università islamiche, nemmeno sulla predicazione degli imam, che
spesso è a carattere violento. Le espulsioni avvengono sempre dopo gli
attentati e non prima, né ci si interroga sul perché ad attuare gli attentati
siano sempre immigrati islamici di seconda generazione che avrebbero dovuto
sentirsi integrati. L’Occidente non vuole proteggere i cristiani dalle
vessazioni dell’Isis o di Boko Haram, figuriamoci si può avere la forza di
pretendere la reciprocità: per ogni moschea costruita in occidente una chiesa
cristiana costruita nei paesi musulmani. Questa debolezza fa paura e getta una
luce sinistra sulle migrazioni in genere, dato che i migranti di religione
musulmana sono molti e tra essi si nascondo anche possibili futuri terroristi.
Un processo
migratorio incontrollato ed avente come scopo una società multiculturale e
multireligiosa da superare in una successiva fase con una religione universale
sincretista sembra anche funzionale al progetto di secolarizzazione e di
eliminazione della religione cattolica. In questa prospettiva essa dovrà
perdere la pretesa di unicità e specificità e confluire in una religione
dell’ONU o in una ONU delle religioni. Si è a conoscenza di progetti pensati
appositamente a questo scopo e di dichiarazioni di intenti a ciò espressamente
finalizzate.
Il magistero della
Chiesa cattolica e in modo particolare il recente magistero petrino è
soprattutto attento a segnalare il dovere fraterno dell’accoglienza nei
confronti di chi è nel bisogno. Si tratta di una indicazione evangelica. La
complessità della problematica però richiede anche altri interventi ad altri
livelli, pure essi animati dal dovere fraterno dell’accoglienza, che non può
essere cieca ma deve strutturare la speranza[4].
Gli inviti del Santo Padre all’accoglienza del fratello non esimono dal
conoscere le sfaccettature del problema e dal mettere in atto le necessarie
strategie ai diversi livelli di competenza, anzi lo richiedono.
Bisogna notare qui
che da tempo il magistero sociale della Chiesa ha trascurato di sviluppare un
tema che, invece, nelle problematiche dell’immigrazione, gioca un ruolo molto
importante. Mi riferisco al tema della nazione e della sua identità culturale
che la pone necessariamente in rapporto con la domanda su Dio e quindi con la
religione. L’ultimo ad occuparsene con una certa sistematicità è stato Giovanni
Paolo II sia nella Centesimus annus[5],
sia in numerosi discorsi, sia nel libro “Memoria e identità”[6].
L’uomo è incomprensibile – così egli insegnava – se non dentro la cultura della
sua nazione e nella memoria della propria identità. E’ lì che il rapporto con
Dio si manifesta in modo pieno, mentre visioni dell’uomo cosmopolite, come
quelle nate dalla rivoluzione francese e dalla cultura illuminista, impediscono
la relazione con Dio, appiattendo l’uomo, visto come singolo, dentro una
umanità astratta e puramente quantitativa. Nella nazione, invece, l’uomo trova
una entità organica e vitale che lo arricchisce. In queste considerazioni di
Giovanni Paolo II deve essere stata centrale la storia della Polonia, la
memoria della cui identità ha fatto tutt’uno con la memoria della Chiesa circa
la propria identità. E’ per questo che oggi la Polonia è tra le nazioni
dell’Unione europea quella più recalcitrante ad assumere modelli di
ragionamento imposti da Bruxelles ed è anche quella che oppone più resistenza
ad una immigrazione forzata ed avente come scopo la società multiculturale che
è la negazione della nazione.
Non è opportuno
sottolineare solo la globalità della convivenza umana e dimenticare la realtà
delle nazioni, con cui l’evangelizzazione si è sempre misurata, avendo a cuore
l’uomo concreto che è sempre dentro un contesto culturale specifico e non è
l’uomo astratto dell’Illuminismo o della moderna società globale tecnologica.
La concezione cristiana dell’unità del genere umano ha un fondamento teologico
ineccepibile nella comune natura di figli di Dio Creatore, ma è organicamente
ricca e non rifiuta l’appartenenza alle identità nazionali che come tali si
rapportano anche alla dimensione religiosa. E’ interessante notare che, in
genere, i vescovi africani cerchino di dissuadere i propri figli dall’emigrare,
invitandoli piuttosto ad operare per il miglioramento della propria nazione.
In questa
trascuratezza del tema della nazione si notano vari possibili pericoli. Il
primo è che si vedano le migrazioni solo come migrazioni di singoli individui e
non come migrazioni di popoli, culture e religioni. Sarebbe un errore molto
rilevante. Il secondo pericolo è che si perda la possibilità di pensare
adeguatamente il bene comune, perseguendolo anche tramite le politiche
migratorie. Nell’accogliere gli immigrati il potere politico dello Stato
accogliente deve tenere anche in conto il bene comune della propria comunità
politica e deve preservare la identità o le identità culturali che ne
costituiscono la memoria viva. In terzo luogo potrebbe darsi uno scivolamento
pericoloso della Chiesa nel linguaggio e nella mentalità degli odierni
organismi internazionali. Ma la Chiesa cattolica non può adoperare lo stesso
linguaggio ideologico pacifista ed ecologista dell’ONU.
Le modalità con
cui oggi si affrontano le migrazioni sono insufficienti. Il fenomeno va
governato ma per poterlo fare bisogna conoscerlo nella sua realtà. Anche le
frasi evangeliche possono diventare slogan ideologici se vengono adoperate per
nascondere la realtà invece di tenerne conto. Impegnarsi per risolvere i
problemi nei Paesi di origine, colpire le reti di trafficanti di persone umane,
non creare in quei Paesi situazioni di guerra pilotata dalle potenze
occidentali, colpire anche militarmente i califfati sanguinari anziché
finanziarli o sostenerli indirettamente, proteggere i cristiani perseguitati,
pretendere pariteticità con gli stati islamici, vegliare sugli ingressi di
emigrati islamici, aver chiaramente in testa una piattaforma di valori da
pretendere che gli immigrati condividano, dare prima assistenza a tutti ma non
accogliere e integrare tutti, proteggere la propria identità culturale e
nazionale, proteggere e difendere le proprie radici cristiane e cattoliche, non
motivare l’accoglienza con inesistenti argomenti economici, operare per
l’aumento della natalità nei nostri Paesi con adeguate politiche familiari e
demografiche, opporsi all’appiattimento delle persone e dei popoli da parte
delle nomenclature sovranazionali e alla imposizione del pensiero unico degli
organismi internazionali. Ecco una rosa di modi di pensare che potrebbero
essere utili a governare meglio il fenomeno epocale migratorio.
[1] Direttore
dell’Osservatorio Cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa.
Sottoscrivono la Sintesi introduttiva: Fernando Fuentes Alcantara, Direttore
della Fundación Pablo VI, Madrid; Grzegorz Sokolowski, Presidente
della Fondazione Osservatorio Sociale (Fundacja Obserwatorium Społeczne),
Wroclaw (Polonia); Daniel Passaniti, Direttore esecutivo
CIES-Fundación Aletheia, Buenos Aires; Manuel Ugarte Cornejo, Direttore
del Centro de Pensamiento Social Católico della Universidad San Pablo di
Arequipa, Perù.
[2] Il
IV Rapporto (2012) era dedicato a “La colonizzazione della natura umana”; il V
Rapporto (2013) a “La crisi giuridica ovvero l’ingiustizia legale”; il VI
Rapporto (2014) a “La rivoluzione della donna, la donna nella rivoluzione”; il
VII Rapporto (2015) a “Guerre di religione, guerre alla religione”.
[3] Silvia
Scaranari Introvigne, La guerra “a pezzi” e le nuove guerre di religione,
in VII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, Cantagalli,
Siena 2015, p. 149-164; Id., Violenza e pace di vecchi e nuovi
califfati, in AA.VV., Le nuove guerre di religione, Cantagalli,
Siena 2016, pp. 69-80.
[4] Lo
hanno per esempio ricordato i Vescovi europei nel comunicato finale a seguito
della Assemblea del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE)
tenutosi a Gerusalemme dal 11 al 16 settembre 2015.
[5] Giovanni
Paolo II, Lett. Enciclica Centesimus annus (1991) n. 24.
[6] Giovanni
Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005.
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