Riportiamo qui di seguito il capitolo conclusivo del libro Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.
Le sfide che attendono Kagame
Kagame: leader visionario o dittatore?
Le sfide che attendono Kagame
Kagame: leader visionario o dittatore?
Autocrate visionario
per gli uni, dittatore sanguinario per gli altri, uno dei 100 uomini più
influenti dell’anno 2009 per la rivista Time, artefice, secondo l’ex premier
britannico, Tony Blair, grazie alla sua “leadership visionaria”, d’aver reso il
Rwanda “stabile, prospero, i cui parametri di scolarità e sanità stanno
rapidamente migliorando, e l'economia sta conoscendo un vero boom”. All’opposto
il Nobel per l’economia 2015, Angus Deaton, ne ha parlato, cinicamente, in
questi termini: “Nel Rwanda di oggi, il presidente Paul Kagame ha scoperto come
usare il calcolo utilitaristico di Singer contro la sua stessa gente. Fornendo
assistenza sanitaria alle madri e ai bambini ruandesi, è diventato uno dei
beniamini dell'industria e un perfetto candidato alla fruizione di aiuti
umanitari. Essenzialmente, sta “allevando” i bambini ruandesi, permettendo a un
maggior numero di loro di vivere in cambio del sostegno alla sua regola
antidemocratica e oppressiva. I grandi flussi di aiuti in Africa a volte aiutano
i beneficiari previsti, ma aiutano anche a creare dittatori e forniscono loro i
mezzi per isolarsi dai bisogni e dai desideri della loro gente” (1). Ma
chi è veramente Paul Kagame? ’ Ne ha fatto un ritratto, con l’abilità dei
grandi giornalisti, Jeffey Gettleman in un articolo (2) comparso il 4 settembre
2013 su The New York Times sotto il titolo “L'uomo forte preferito dall'élite
globale”, frutto di un incontro di 4 ore nella residenza presidenziale e dei
necessari approfondimenti. Paul Kagame viene così descritto.” Spartano, stoico,
analitico e austero, passa regolarmente fino alle 2 o 3 ore del mattino a
sfogliare i numeri arretrati di The Economist o a studiare i progressi dei
villaggi di terra rossa del suo Paese, alla continua ricerca di modi migliori e
più efficienti per allungare il miliardo dollari che il suo governo riceve ogni
anno dalle nazioni donatrici che lo ritengono un brillante esempio di ciò che
il denaro degli aiuti può fare in Africa…. Si è guadagnato la pessima reputazione
di uomo spietato e brutale e, mentre i riconoscimenti si sono accumulati, ha
letteralmente fatto collassare il suo popolo e ha segretamente sostenuto gruppi
di ribelli assassini nel vicino Congo. Almeno, questo è ciò che un numero
crescente di critici dice, inclusi funzionari di alto rango delle Nazioni unite
e diplomatici.” I critici di Kagame dicono anche che ha eliminato molti dei
media indipendenti del Rwanda e imprigionato e perseguito diversi suoi
oppositori, in particolare compagni d’arme della prima ora come Kayumba
Nyamwasa, ex capo di stato maggiore dell’esercito fuggito in Sud Africa, dove è
stato oggetto di un attentato da cui è riuscito a salvarsi nonostante le ferite
riportate. "Kagame è diventato stupidamente arrogante", ha detto
Nyamwasa a Jeffey Gettleman, elencando “quelli che considerava i più grandi
errori di Kagame, incluso l'ingerenza in Congo e l’epurazione di chiunque fosse
in disaccordo con lui” sottolineando altresì di non lasciarsi ingannare
dall'aria cerebrale di Kagame, che, in realtà, è piuttosto violento, tanto che
“le sue truppe avevano paura di lui e in realtà lo odiavano". Un giudizio
nel suo complesso, nelle luci e nelle ombre, certificato dallo stesso Kagame
che al termine dell’intervista si è accomiatato sussurrando all’intervistatore:
"Dio mi ha creato in un modo molto strano”. Qualche anno dopo, in
un’intervista al settimanale Jeune Afrique del maggio 2017, Kagame fa di sé
questo autoritratto "sono idealista; voglio il meglio, anche se
il meglio non è necessariamente realizzabile. Ma, allo stesso tempo, sono
realista e pragmatico. Sono consapevole dei miei limiti... so quello che
posso e non posso fare, pur perseguendo l'impossibile. Questo è il mio
modo di essere e quello dei ruandesi".
Il
terzo mandato presidenziale
Dopo essere passato al vaglio di due elezioni presidenziali,
nel 2003 e nel 2010, alla scadenza del secondo mandato, come tanti suoi
omologhi africani, non ha resistito alla tentazione di perpetuare il suo
potere, mettendo mano alla costituzione che prevedeva il limite di due mandati.
Una campagna ben orchestrata, in cui i paladini del terzo mandato sostenevano
che la riconferma di Kagame alla presidenza avrebbe significato riproporre
anche per il futuro il modello vincente che ha fin qui assicurato gli attuali
trend di sviluppo, ha promosso una modifica costituzionale per abolire il
limite dei due mandati presidenziali. Nel dicembre del 2015, un referendum
costituzionale che ha ottenuto il 98,3% di sì, ha dato il via al terzo mandato
presidenziale. A nulla sono valse le riserve espresse da Stati Uniti e Unione
Europea che, come in altre precedenti occasioni, non hanno sortito alcun
effetto sull’uomo forte del Rwanda. Così, all’alba dei sessanta anni, compiuti
il 23 novembre 2017, Kagame sì è aggiudicato un altro settennato, vincendo le elezioni
con un plebiscitario 98,63%, essendosi spartito il resto dei voti i due altri
contendenti nella competizione elettorale. A questo punto anche per il 2017 il
Premio Ibrahim per la leadership africana, istituito nel 2006 dal miliardario
sudanese Mo Ibrahim, da assegnare a un leader africano che trasferisce
democraticamente il potere lasciando il proprio Paese migliore di prima, non
avrà un vincitore, che si sarebbe visto assegnare 5 milioni di
dollari (più del triplo dei premi Nobel) da destinare a iniziative umanitarie,
ma anche un cospicuo vitalizio di 200mila dollari l'anno. Il presidente
Paul Kagame ha iniziato così un nuovo settennato di governo del Rwanda, al
quale potranno seguire, alla luce della richiamata riforma costituzionale,
altri rinnovi fino ad arrivare al 2034.
Cosà farà in questi
anni, quali le sfide che lo attendono? Non saranno poche e sono state
tutte chiaramente evidenziate dalle più autorevoli testate internazionali in
sede di presentazione della tornata elettorale presidenziale. Ne ha fatto una
sintesi realistica The Economist in un suo articolo (3) impietosamente
intitolato Many Africans see Kagame’s Rwanda as a model. They are wrong, (Molti
africani vedono il Rwanda di Kagame come un modello. Si sbagliano), in cui,
dopo aver riconosciuto gli indubbi meriti della governance ruandese a partire
dal 1994, evidenzia le criticità in tema di diritti e libertà democratiche,
concludendo con un brutale benservito a Paul Kagame: "Dopo le elezioni
l'uomo forte del Rwanda dovrebbe ritirarsi con grazia”. Non crediamo che Kagame
aderisca al duro diktat del settimanale britannico, peraltro abituato anche a
clamorose giravolte circa i giudizi rilasciati su leader politici
internazionali, e ne avrebbe buon motivo non essendoci, allo stato, un’altra
figura in grado di garantire al Rwanda una continuità degli standard attuali di
vita civile in termini di sicurezza e di trend di sviluppo economico.
Sbaglierebbe comunque a sottovalutare e tacitare, sull’onda della schiacciante
vittoria, le critiche avanzate da più parti, opponendo i successi a livello di
sviluppo economico e di sicurezza. Per cominciare, mentre sulla sicurezza tutti
concordano sul clima di tranquillità che si vive in Rwanda, tanto che un
recente rapporto della Gallup colloca il Paese al secondo posto in Africa e 11°
al mondo tra i paesi percepiti come più sicuri, sui progressi economici non
tutti condividono le statistiche ottimistiche del governo, di cui taluni
ricercatori hanno evidenziato qualche incongruità di troppo. Critiche che non
possono comunque offuscare gli effettivi progressi messi a segno in questi
anni, di cui ha contezza chi visiti con continuità il Paese. Semmai Kagame
dovrà operare perché lo sviluppo economico avvenga con il coinvolgimento
dell’intera società ruandese, sia quella cittadina che quella delle campagne,
evitando per quanto possibile che le ricadute economiche interessino solo la
ristretta cerchia degli esponenti vicini al gruppo di potere, a cui sono
riconducibili tutti i principali business, a partire da quello molto grigio del
commercio di minerali, di cui si connota la giovane economia ruandese.
Diversamente si corre il rischio che le lacerazioni etniche, che si è tentato
di superare con una forte campagna per la creazione di un’identità nazionale
ruandese (campagna "Ndi Umunyarwanda – Io sono ruandese"), trovino
nuova linfa in una divaricazione su basi economiche, tra ricchi e poveri o tra
città e campagne. E' nel campo dello sviluppo economico che Kagame si gioca la
sfida maggiore, perché alla lunga, senza una continuità nella crescita e una
conseguente equa partecipazione alla spartizione dei relativi frutti, diventa
difficile giustificare e far accettare ai ruandesi taluni risvolti negativi, in
termini di libertà e rispetto dei diritti civili, che inevitabilmente si
accompagnano a uno stile di governance autocratico, quale quello
caratterizzante l'attuale governance ruandese.
Sviluppo
economico e democrazia
Anche
perché fino a quando uno sviluppo socio-economico durevole può prescindere da
un quadro certo di libertà democratiche? Seppur la ricerca di economisti e
scienziati della politica non sia giunta a dare una risposta certa a
questa domanda - ci sono, infatti, esempi a sostegno di una tesi (la Cina
continua a progredire pur in presenza di un quadro per niente democratico) o
del suo opposto (la Corea del Sud ha accentuato il suo sviluppo economico dopo
aver abbandonato la dittatura per incamminarsi sulla strada della democrazia) -
alcune riflessioni si possono fare sul futuro del Rwanda. La fotografia del
Paese rilasciata dai maggiori osservatori internazionali evidenzia l'irrisolto
dilemma della dinamica tra sviluppo economico e sviluppo democratico. I
riconosciuti progressi in campo economico, di cui il trend di sviluppo del PIL
è solo uno degli indicatori, e sociale (nella sanità, nell’istruzione e in
materia di ordine pubblico e sicurezza) non possono, infatti, far
dimenticare il basso livello a cui si collocano due aree che, in senso lato,
connotano il livello di vita democratica di un Paese: il livello
di libertà individuali, di associazione e di espressione e,
ancor più, nell’esercizio dei diritti politici, nella partecipazione
alla vita politica e nel livello di libertà e di trasparenza del momento elettorale.
Pur non scandalizzandoci che si possa porre mano alla costituzione, anche se
non ci sfuggono i rischi che ne potrebbero conseguire, non siamo del tutto
sicuri che l'equazione sia valida e che il futuro debba
necessariamente riservare ulteriori trend di sviluppo, senza che intervenga,
magari proprio in forza di una riconferma dell'attuale leadership, un parallelo
processo di crescita democratica che favorisca una reale partecipazione, nella
certezza del diritto, di tutti i ruandesi alla vita politica del Paese e alla
condivisione del potere, in un quadro di consolidato rispetto dei diritti
individuali. Infatti, anche l'economia, così come la società
civile, necessita di un contesto dove vi sia libertà, certezza del
diritto e rispetto delle regole. E' lecito chiedersi, quindi, quanto a lungo le
autorità politiche sapranno preservare l'area economica da modelli
"autoritari" applicati nella vita civile. Perché dovrebbe essere
rispettoso della libertà d'impresa e delle proprietà privata chi non applica
tali principi quando si tratta della sfera delle libertà personali e della
dialettica democratica? Non si sono forse già visti casi di vero e proprio
esproprio di fortune private, in violazione di qualsiasi norma? Non siamo
forse in presenza di una riproposizione del modello politico vigente quando si
assiste a un processo di formazione di veri e propri
monopoli, riconducibili all'élite di potere, che frenano in diversi
comparti economici una fisiologica concorrenza, e una libertà d'intraprendere?
Siamo certi che gli investitori internazionali, attirati dall'attuale
riconosciuta facilità di fare impresa, alla lunga non risentano di un simile
contesto? Senza dimenticare, da ultimo, la forte correlazione degli aiuti
internazionali ai livelli di democrazia applicati nei paesi destinatari, che
può portare, come successo di recente anche per il Rwanda, a tagli che
sanzionano atti di governo giudicati non in linea con gli standard di
governance internazionali. In tal senso, non fa certo testo il trattamento
che la comunità internazionale riserva alle violazioni dei diritti umani
perpetrati dalla Cina: si può chiudere un occhio sulle malefatte di un Paese
con un mercato di oltre un miliardo di consumatori, non certo per uno con
dodici milioni di abitanti come il Rwanda. Forse lo sviluppo socio-economico
non è così intrinsecamente correlato con un parallelo progresso democratico, ci
sono però conferme che l'interrompersi di un ciclo economico
favorevole non giova a chi detiene il potere; per questo, nel
dubbio, tanto varrebbe non tralasciare l'opzione dell'apertura
democratica.
L’ora dell’autocrate
ragionevole
Un autocrate
ragionevole e, per molti, illuminato quale può essere appunto definito Paul
Kagame, forte della grande investitura e dell’oggettivo appoggio della
stragrande maggioranza dei ruandesi, dovrebbe essere capace, in presenza di un
potere ormai consolidato, anche di quei gesti di “benevolenza” che ne affinino
l’immagine, soprattutto a livello internazionale, senza che possa essere messa
a rischio la sicurezza interna in cui si trova a vivere il Paese. Un politico
attento come il presidente ruandese dovrebbe essere capace di alcuni segnali di
apertura, che lungi dall'apparire gesti di debolezza ne confermerebbero al
contrario l'autorevolezza. Un passo in questa direzione potrebbe tradursi in un
gesto di clemenza verso Victoria Ingabire, piuttosto che del famoso cantante
Kizito Mihigo condannato a 10 anni di carcere essendo stato riconosciuto
colpevole di "complotto contro il governo”. Un allentamento dei forti
vincoli imposti ai media e alle voci della società civile e un’interruzione di
certe pratiche, che portano alla scomparsa di oppositori più o meno famosi, non
inficerebbero né la credibilità, né l’autorevolezza di un leader riconosciuto e
consolidato. Sarebbe altresì fondamentale che Kagame sapesse alimentare quei
segnali colti da un profondo conoscitore della realtà africana, padre Giulio
Albanese, che in un suo articolo apparso su Avvenire nell’agosto 2017, così
descriveva la situazione del Rwanda. “Si sta affermando un graduale processo di
democratizzazione "dal basso", frutto della lenta ma sicura
maturazione di un’opinione pubblica interna sensibile alla cittadinanza e al
superamento dell’etnocentrismo politico. Il fatto che il governo di Kigali
continui a essere saldamente nelle mani del Fronte patriottico ruandese (FPR),
grazie anche ai successi delle politiche di modernizzazione messe in atto in
questi anni dal regime, non esclude scenari inediti alla narrazione
giornalistica internazionale. Esiste, infatti, una resistenza democratica
locale fatta di piccole realtà rurali e cittadine, espressioni eloquenti della
società civile, che, con impegno e determinazione, silenziosamente,
contribuisce a modificare i meccanismi di relazioni interetniche, rafforzando
il ruolo socioeconomico dei territori e delle comunità autoctone. Si tratta di
reti di solidarietà che nascono soprattutto tra i giovani e le donne, nuove
mentalità di gestione e innovative pratiche di management sociale; gruppi
informali i cui attori mutano e si diversificano costantemente, con una
coscienza accresciuta dei loro diritti di cittadinanza". Da ultimo, rimane
la sfida decisiva: preparare le condizioni perché alle prossime elezioni, che
si terranno nel 2024, Kagame non abbia la necessità di scendere nuovamente in campo,
avendo nel frattempo creato le condizioni di una successione, speriamo non
dinastica, in grado di raccogliere il testimone per proseguire sulla strada
dello sviluppo, della piena riconciliazione nazionale e di definitiva apertura
a una governance compiutamente democratica.
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