Come
noto, nel 2007, il governo rwandese, con l’intento di aumentare la produzione agricola e passare da un’agricoltura di mera sussistenza ad una più
commerciale, ha dato il via a una nuova politica agricola incentrata
sull’accorpamento dei terreni per coltivare su grandi estensioni un’unica coltura, a seconda della
vocazione agricola delle diverse regioni del paese.Così a fianco delle zone
dove tradizionalmente era concentrata la coltivazione delle due grandi colture
d’esportazione come il the e il caffè, si crearono zone dove coltivare il
grano piuttosto che il mais, o altre colture, non esclusa in una determinata
zona del paese la floricoltura. Per raggiungere questi obiettivi, ogni
provincia è chiamata a coltivare ciò che è stato deciso dal Ministero delle
Politiche Agricole in base alle specifiche del suolo e del clima; gli
agricoltori si devono inoltre riunire in cooperative per coltivare insieme, potendo contare su sementi migliorate e a prezzo dimezzato. Gli sforzi
del governo hanno così portato a un aumento delle produzioni, come
sottolinea compiaciuta Agnès Kalibata, ministro dell’agricoltura: "Durante gli
ultimi tre anni, grazie alla quasi triplicazione del raccolto di mais, frumento
e manioca, la produzione agricola nazionale è aumentato di circa il 14%
all'anno, e non ci sono più le carenze del passato". Ma, secondo
quanto sostenuto dall’agenzia di stampa
rwandese, RNA, ci si trova oggi in una situazione evidenziante, a fianco del
richiamato significativo incremento della
produzione totale del paese, un certo
disorientamento tra i contadini costretti a far fronte a talune sovrapproduzioni che portano al mancato
ritiro di parte della produzione, piuttosto che a una diminuzione dei prezzi di
mercato dei prodotti. Senza dimenticare che
alcuni delle nuove colture, come il grano o il mais, non rientrano nella
dieta rwandese e se rimangono invendute giacciono inutilizzate nei magazzini,
con grande scontento dei contadini ai quali in certe zone si è arrivati anche
ad estirpare i bananeti, fonte primaria dell’alimentazione rwandese. Ancora
la RNA scrive che alcuni produttori non
sono in grado di vendere i loro raccolti, altri si trovano a dover fare i conti
con una dieta, definita eufemisticamente sbilanciata, forse per non dire di
fame. Scoraggiati, alcuni disattendono apertamente le linee guida del governo. Per esempio molti contadini del nord del Rwanda si dicono determinati a non
coltivare più il grano dopo che non sono riusciti a vendere il loro raccolto
tramite i canali ufficiali. Per questo
si ripromettono di abbandonare la coltivazione del grano per passare a
coltivazioni più remunerative. . Taluni lamentano che "non è sufficiente
dire adottiamo una cultura, piuttosto che un’altra, semplicemente perché è più semplice spiegare la sua
coltivazione alla gente “ E ancora “ è difficile
capire perché è stata abbandonata la coltivazione del sorgo che in passato ha
sempre garantito buone entrate oltre che evitare la malnutrizione nelle
famiglie” con la conseguenza che la sua
scarsità ha fatto lievitare il prezzo a
350 Frw contro i 200 Frw del recente
passato, con la non secondaria conseguenza per i rwandesi che la birra
artigianale, prima fatta con il sorgo,
ora viene fatta con miscele improponibili.
Gli squilibri
alimentari sono in crescita in alcune aree. "In tutte le famiglie di questo
settore” si lamenta un abitante di Musanze sentito dalla RNA, “non si mangiano che patate e per acquistare fagioli o altre verdure si devono percorrere
kilometri, mentre prima ognuno se le coltivava nel proprio campo”. Ne consegue
un generalizzato aumento dei prezzi di tutte quelle colture non rientranti tra
quelle promosse dalle autorità, di cui
abbiamo già parlato in un precedente post.
L’articolo
della RNA così conclude “se l'obiettivo di aumentare la produzione complessiva
è stato raggiunto, questa rivoluzione
verde spesso impatta pesantemente sull’alimentazione
delle famiglie contadine e sul reddito degli agricoltori che vogliono solo una
cosa: che a fronte dell’impossibilità di mangiare i frutti delle loro
coltivazioni che almeno il prezzo di
vendita di questi remuneri il loro lavoro e le spese assunte”.
Nel
complesso siamo in presenza di un quadro che ripropone un déja vu: un’agricoltura centralizzata già
storicamente fallita ovunque nel
mondo sia stata proposta/imposta.