La
riforma della costituzione rwandese marcia spedita verso la sua approvazione.
Ieri ha raccolto l’approvazione unanime della Camera. Ma il testo licenziato
riserva qualche sorpresa. Finora si era
parlato di una revisione costituzionale che, abolendo il vincolo dei due
mandati, consentisse al presidente Kagame di concorrere per un terzo mandato. I
deputati si sono però superati. Hanno infatti modificato l’articolo 101,
prevedendo due mandati da cinque anni cadauno, ma hanno anche riscritto, in
maniera sartoriale sulla taglia del presidente in carica, l’articolo 172 che,
come spiegato dal presidente della Camera dei Deputati
Donatille Mukabalisa ( il testo approvato non è stato reso pubblico), consente a qualsiasi
rwandese, Kagame compreso, di concorrere nel 2017 a un mandato transitorio di sette
anni e successivamente a correre per due
mandati di cinque anni previsti dalla nuova costituzione. Per essere adottato
definitivamente, il nuovo testo deve ora passare all'esame del Senato e quindi essere
sottoposta a referendum. All’entrata in vigore della nuova costituzione si creeranno i presupposti perché Paul Kagame invece di un ulteriore mandato, contro cui peraltro ci
sono state diverse prese di posizione a livello internazionale, tra cui Usa e
UE, si troverebbe nelle condizioni di poter
aggiungere ulteriori due mandati di cinque anni ciascuno, rimanendo al potere
fino al 2034.
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venerdì 30 ottobre 2015
Nasce (fra qualche perplessità) la seconda banca rwandese
Il gruppo
finanziario internazionale Atlas Mara ha annunciato ieri d’aver perfezionato
gli accordi per l’acquisizione di una
quota di maggioranza della Banque Populaire du Rwanda. Secondo un comunicato dell'acquirente, "una volta che
questo passaggio sarà completato, Mara Atlas intende fondere BPR e BRD
Commercial Bank, la banca rwandese acquisita da Atlas nel 2014. pervenendo a detenere il 62% della nuova entità. Il residuo del capitale sarà detenuto da Rabobank, attuale azionista al 35% di BPR, e da altri attuali azionisti di BPR. A operazione
conclusa, dopo le autorizzazione delle autorità di vigilanza bancaria locali, la nuova banca, che conserverebbe il nome di
Banque Populaire, sarebbe il secondo operatore bancario del paese, dietro la
Banca di Kigali, con un totale attivo di $ 246.000.000 al 30 giugno 2015. Per
valutare la bontà dell’operazione merita spendere due parole sul protagonista dell’operazione,
il gruppo Atlas Mara. Il gruppo è stato fondato a Londra nel 2013 dal chiacchierato ex amministratore delegato
della britannica Barclays, Bob
Diamond, uscito di scena forzata dopo lo scandalo Libor, e
dall’imprenditore di origini ugandesi, Ashish Thakkar, con l'ambizione di
costruire un gruppo bancario panafricano. La holding, con una dotazione di
625 milioni di dollari raccolti fra investitori istituzionali e fondi, da allora ha preso il controllo del gruppo
BancABC Botswana, detiene una quota di minoranza in Union Bank of Nigeria e
partecipazioni in Tanzania e Mozambico e, proprio ieri, ha perfezionato l’acquisizione del controllo totale del
capitale di Finance Bank Zambia, il sesto istituto bancario del paese. La
gestione del gruppo ha sollevato qualche perplessità nella stampa finanziaria
mondiale, si veda al riguardo questo
articolo de The Wall Street Journal. Non convince del tutto anche la
natura meramente finanziaria della capogruppo, il cui intervento si colloca a
un livello ben diverso da quello che
potrebbe fornire, anche in termini di know how, un partner bancario storicamente
consolidato. Al riguardo, sarà interessante guardare anche alle future mosse della
Rabo Bank, socio di minoranza della nuova BPR, per capire come e per quanto
rimarrà nell’azionariato della nuova banca a fianco dell'ingombrante socio di maggioranza.
mercoledì 28 ottobre 2015
Rwanda: secondo al mondo per la facilità di accesso al credito
Il Rwanda è il secondo
paese al mondo per facilità di accesso al credito, secondo solo alla Nuova
Zelanda e a pari merito con USA e Colombia.E’ questo uno dei dati che emerge
dal rapporto Doing Business, rilasciato ieri Banca Mondiale.Doing Business, arrivato
quest’anno alla sua 13° edizione, fornisce un giudizio sui diversi paesi sulla
base di una serie di parametri che entrano in gioco nel momento in cui un
imprenditore intende avviare una nuova impresa. Sono presi in esame dieci
parametri: si va dalla facilità di avviare un'impresa, ai tempi di ottenimento
di permessi di costruzione all’accesso all’energia elettrica, dalla
registrazione dei titoli di proprietà all’accesso al credito fino alla tutela
degli investitori di minoranza e alla risoluzione degli stati di
insolvenza. In questa
classifica che vede, anche per il 2016, al primo posto Singapore,
il Rwanda si posiziona al 62° posto (in arretramento di sei posizioni rispetto
al 2015 quando era 55° secondo un aggiustamento dei parametri utilizzati ex 46°
posto). L’Italia è al 45° posto. Il confronto tra Rwanda e Italia è per noi
penalizzante nell'accesso al credito 2° posto contro 97°, nella facilità di
ottenere un permesso di costruzione (37° posto contro 86°) o nel carico fiscale
complessivo (48° contro 131° posto).
Nell’ultimo anno il Rwanda nel suo complesso non evidenzia particolari scostamenti rispetto al dato dell’anno precedente riportato tra parentesi. Da sottolineare il prestigioso secondo posto per l’accesso al credito. Il Rwanda e' il secondo miglior paese dell’Africa sub sahariana dopo Mauritius e davanti al Botswana e al Sud Africa.
Paese
|
Facilità di fare affari
|
Avviare un'impresa
|
Permessi per costruire
|
Allaccio rete elettrica
|
Registro proprietà
|
Accesso al credito
|
Tutela degli investitori
|
Fisco
|
Commercio con l'estero
|
Efficacia
dei contratti
|
Gestione fallimenti
|
Rwanda
|
62
|
111 (117)
|
37 (36)
|
118 (115)
|
12 (12)
|
2
(4)
|
88 (121)
|
48 (47)
|
156 (77)
|
127 (123)
|
72 (97)
|
IItalia
|
45
|
50
|
86
|
59
|
24
|
97
|
36
|
137
|
1
|
111
|
23
|
Nell’ultimo anno il Rwanda nel suo complesso non evidenzia particolari scostamenti rispetto al dato dell’anno precedente riportato tra parentesi. Da sottolineare il prestigioso secondo posto per l’accesso al credito. Il Rwanda e' il secondo miglior paese dell’Africa sub sahariana dopo Mauritius e davanti al Botswana e al Sud Africa.
sabato 24 ottobre 2015
Appello del Partito socialista francese a favore di Victoire Ingabire
Non è un momento particolarmente felice per i rapporti franco-rwandesi. Dopo il non luogo
a procedere
della giustizia francese contro il sacerdote Wenceslas Munyeshyaka, accusato di aver partecipato ad atti genocidari, che ha destato reazioni
estremamente critiche a Kigali, ecco un nuovo gesto poco amichevole. Questa
volta si tratta di un comunicato del Partito socialista francese, il
partito del presidente Hollande, a favore di Victoire Ingabire,
l'oppositrice rwandese condannata
a 15 anni di prigione con l'accusa di cospirazione. Secondo i
socialisti francesi Victoire Ingabire Umuhoza, presidente del partito
Forces démocratiques unifiées (FDU-Inkingi), "deve poter partecipare
liberamente alla vita democratica del suo paese". Per questo il Partito
socialista s'associa alle domande per la sua liberazione, esprimendo
"la propria solidarietà alla sua famiglia, al suo partito e a tutte le
forze democratiche e pacifiste che vogliono instaurare una pace durevole in
Rwanda e operare all'instaurazione delle libertà fondamentali per tutti i
Rwandesi". E già che c'erano, i socialisti francesi fanno sapere di
essere preoccupati per la "tentazione del potere rwandese di rimettere in
discussione l'assetto costituzionale e il limite fissato ai mandati
presidenziali", per questo fanno appello alle autorità perchè rinuncino a
loro progetto di revisione costituzionale.Una vera e propria entrata a gamba
tesa, peraltro in linea con una recente analoga
presa di posizione del sottosegretario USA, Sarah
Sewall, che le autorità rwandesi hanno prontamente rimandato al mittente.
venerdì 23 ottobre 2015
Ecco come si estrae il coltan
Proponiamo qui di seguito il filmato che fa parte di un servizio di Nick Fagge per MailOnline che documenta le fasi di lavorazione nella miniera a cielo aperto di Luwow, nel Kivu ai confini con il Rwanda, un tempo controllata da una milizia ribelle, ora gestita da una cooperativa di lavoratori, la Cooperamma. Il minerale estratto viene portato a Goma per essere poi esportato corredato dalla certificazione che non proviene da zone di conflitto, così come richiesto dalla normativa internazionale. Il reportage, corredato anche da splendide fotografie è consultabile cliccando qui.
Per saperne di più su questo importante minerale leggi tutti i nostri post in materia, cliccando qui.
martedì 20 ottobre 2015
Dio o niente.L'anima africana della fede
“Ho letto Dio o niente con grande profitto spirituale, gioia e gratitudine.
La sua testimonianza della Chiesa in Africa, della sua sofferenza durante il
tempo del marxismo e di una vita spirituale dinamica, ha una grande importanza
per la Chiesa, che è un po' spiritualmente stanca in occidente. Tutto ciò che
Lei ha scritto per quanto riguarda la centralità di Dio, la celebrazione della
liturgia, la vita morale dei cristiani è particolarmente rilevante e profondo.". In questo
passaggio della lettera che il papa emerito BenedettoXVI ha inviato al card.Robert Sarah è riassunto il libro-intervista "Dio o niente. Conversazione sulla fede” ,
frutto del lavoro del giornalista francese Nicola Diat pubblicato da Cantagalli, Siena 2015, pp. 373,
euro 22,00. Al di là del marketing editoriale,
che lo ha lanciato con grande successo in Francia e poi da noi in Italia,
estrapolando alcuni riferimenti specifici e forti al dibattito sinodale, il libro non è tanto la storia di un figlio dell’Africa, che partendo da un piccolo villaggio della
Guinea, Ourous, è oggi cardinale a Roma, quanto l’autobiografia spirituale di un uomo fortemente attratto da Cristo. In quest’ottica va letta la storia del figlio unico di una famiglia di
contadini che matura la propria
vocazione a contatto con l'intensa spiritualità dei missionari spiritani, presenti
nel villaggio, e che perviene al sacerdozio, a ventiquattro anni, nel 1969 in
un contesto sociale e politico estremamente difficile come quello che si
trovava a vivere la Guinea sotto la dittatura marxista di Sékou Touré. In epoca
di infatuazioni per certe declinazioni politiche della religione, il giovane prete non si lascia attrarre dalle lusinghe del potere e non nasconde la propria opposizione verso il regime marxista. Pur sapendo di fare un gesto non gradito al regime, Paolo
VI decide, nell’aprile 1978, di chiamare don Sarah all’episcopato; la sua consacrazione
a vescovo avverrà però solo nel dicembre del 1979, per le resistenze del presidente
Sékou Touré. Sarà il vescovo più giovane del mondo.Da vescovo della capitale Conakry, i rapporti con il
potere politico si faranno sempre più difficili e solo la morte del dittatore, nel marzo 1984, eviterà a mons. Sarah di essere giustiziato, comparendo il suo
nome in una lista di persone da eliminare. Nel 2001 verrà chiamato da
Giovanni Paolo II a Roma come segretario della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli. Benedetto XVI lo scelse come presidente del Pontificio
Consiglio Cor Unum nell’ottobre del 2010 e nel concistoro del novembre successivo
lo crea cardinale, successivamente, nel 2014, Francesco lo ha destinato a
presiedere il dicastero vaticano che si occupa della liturgia. Tutti questi papi sono ricordati con affetto e ammirazione, ognuno per il proprio carisma.
S.E. card. Robert Sarah |
giovedì 15 ottobre 2015
Sinodo: nelle parole del card. Sarah la voce della Chiesa africana
Riportiamo qui di seguito l’intervento che
il Cardinale Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e
la Disciplina dei Sacramenti, ha pronunciato nelle congregazioni generali di
apertura del Sinodo. ( english version here)
Santità, Eminenze,
Eccellenze, partecipanti al Sinodo, propongo questi tre pensieri:
1) Più
trasparenza e rispetto tra di noi
Sento un forte bisogno di invocare lo Spirito di Verità e Amore, la fonte della parresia nel parlare e dell’umiltà nell’ascoltare, unico capace di creare vera armonia nella pluralità.
Sento un forte bisogno di invocare lo Spirito di Verità e Amore, la fonte della parresia nel parlare e dell’umiltà nell’ascoltare, unico capace di creare vera armonia nella pluralità.
Dico francamente
che nel Sinodo precedente su varie questioni si è sperimentata la
tentazione di cedere il passo alla mentalità del mondo secolarizzato e
dell’Occidente individualista. Riconoscere le cosiddette “realtà della vita”
come un locus theologicus significa rinunciare alla speranza
del potere trasformatore della fede e del Vangelo. Il Vangelo che una volta ha
trasformato le culture rischia ora di esserne trasformato. Alcune delle
procedure usate, inoltre, non sembravano volte ad arricchire la discussione e
la comunione, quanto a promuovere un modo di vedere tipico di certi gruppi
marginali delle Chiese più ricche. Questo è contrario a una Chiesa povera, un
segno gioiosamente evangelico e profetico di contraddizione della mondanità. Né
si capisce perché alcune dichiarazioni che non sono state condivise dalla
maggioranza del Sinodo scorso siano finite comunque nella Relatio e
poi nei Lineamenta e nell’Instrumentum laboris mentre
altre questioni pressanti e assai attuali (come l’ideologia di genere) siano
invece state ignorate.Il primo auspicio
è quindi che nel nostro lavoro ci siano più libertà, trasparenza e obiettività.
Per questo, sarebbe utile pubblicare i riassunti degli interventi, per favorire
la discussione ed evitare qualsiasi pregiudizio o discriminazione
nell’accettare i pronunciamenti dei padri sinodali.
2)
Discernimento di storia e di spiriti
Un secondo
auspicio: che il Sinodo onori la sua missione storica e non si
limiti a parlare solo di certe questioni pastorali (come la possibile Comunione
ai divorziati risposati), ma aiuti il Santo Padre a enunciare chiaramente certe
verità e a offrire una guida utile a livello globale. Perché ci sono nuove
sfide relative al Sinodo celebrato nel 1980. Un discernimento teologico ci
permette di vedere nella nostra epoca due minacce inaspettate (quasi
come due “bestie apocalittiche”) situate in poli opposti: da un lato
l’idolatria della libertà occidentale, dall’altro il fondamentalismo islamico:
secolarismo ateo contro fanatismo religioso. Per usare uno slogan, ci troviamo
tra “ideologia di genere e ISIS”. I massacri islamici e le richieste di libertà
si contendono regolarmente le prime pagine dei giornali (ricordiamoci quello
che è accaduto il 26 giugno!) Da queste due radicalizzazione sorgono le due
minacce principali alla famiglia: la sua disintegrazione soggettivista
nell’Occidente secolarizzato attraverso il divorzio facile e veloce, l’aborto,
le unioni omosessuali, l’eutanasia ecc. (cfr. teoria del gender, ‘Femen’, la
lobby LGBT, IPPF…). Dall’altro lato, la pseudofamiglia dell’islam
ideologizzato che legittima la poligamia, l’asservimento femminile, la
schiavitù sessuale, il matrimonio infantile, ecc. (cfr. Al Qaeda, ISIS, Boko
Haram ...). Vari indizi ci
permettono di intuire la stessa origine demoniaca di questi
due movimenti. A differenza dello Spirito di Verità che promuove la comunione
nella distinzione (perichoresis), incoraggiano confusione (omo-gamia)
o subordinazione (poli-gamia). Richiedono inoltre una regolamentazione universale
e totalitaria, sono violentemente intolleranti, distruggono la famiglia, la
società e la Chiesa e sono apertamente cristianofobici. “Non stiamo
lottando contro creature in carne e ossa…” Dobbiamo essere inclusivi e
accogliere tutto ciò che è umano, ma quello che proviene dal Nemico non può e
non deve essere assimilato. Non ci si può unire a Cristo e a Belial! Quello che
il nazifascismo e il comunismo erano nel XX secolo sono oggi le ideologie
omosessuali e abortive occidentali e il fanatismo islamico
3) Proclamare e
servire la bellezza della monogamia e della famiglia
Di fronte a queste
due sfide mortali e senza precedenti (“omo-gamia” e “poli-gamia”), la Chiesa
deve promuovere una vera“epifania della Famiglia”. A questa possono
contribuire sia il papa (come portavoce della Chiesa) che i singoli vescovi e
pastori del gregge cristiano. Ovvero “la Chiesa di Dio, che egli si è
acquistata con il suo sangue” (Atti 20, 28).
Dobbiamo
proclamare la verità senza paura, ad esempio il Progetto di Dio, che è la
monogamia nell’amore coniugale aperto alla vita. Tenendo a mente la situazione
storica appena richiamata, è urgente che la Chiesa, nel suo incontro, dichiari
definitivamente la volontà del Creatore per il matrimonio. Quante persone
di buona volontà e senso comune si unirebbero a questo luminoso atto di
coraggio della Chiesa! Insieme a una
forte e chiara Parola del Magistero Supremo, i pastori hanno la missione di
aiutare i nostri contemporanei a scoprire la bellezza della famiglia cristiana.
Per fare questo, bisogna in primo luogo promuovere tutto ciò che rappresenta
una vera iniziazione cristiana degli adulti, perché la crisi del
matrimonio è essenzialmente una crisi di Dio, ma anche una crisi di fede, e
questa è un’iniziazione cristiana infantile. Dobbiamo quindi discernere quelle
realtà che lo Spirito Santo sta già sollevando per rivelare la Verità della
Famiglia come comunione intima nella diversità (uomo e donna) che è
generosa nel dono della vita. Noi vescovi abbiamo il dovere urgente di
riconoscere e promuovere i carismi, i movimenti e le realtà ecclesiali in
cui la Famiglia si rivela davvero, questo prodigio di armonia, amore per la
vita e speranza nell’Eternità, questa culla di fede e scuola di carità. Ci sono
moltissime realtà offerte dalla Provvidenza, insieme al Concilio Vaticano II,
in cui questo miracolo viene offerto.
lunedì 12 ottobre 2015
Rwanda: terzo mandato, sviluppo economico e progresso democratico
Uno sviluppo socio-economico durevole puo' prescindere da un quadro certo di libertà' democratiche? Seppur la ricerca di economisti e scienziati della politica non sia giunta a dare una risposta certa a questa domanda - ci sono, infatti, esempi a sostegno di una tesi ( la Cina continua a progredire pur in presenza di un quadro per niente democratico) o del suo opposto ( la Corea del Sud ha accentuato il suo sviluppo economico dopo aver abbandonato la dittatura per incamminarsi sulla strada la democrazia)- alcune riflessioni si possono fare sul futuro del Rwanda. La fotografia del paese recentemente rilasciata dalla Fondazione di Mo Ibrahim è solo l’ultima rappresentazione realistica
della situazione di un paese in cui l'irrisolto dilemma della
dinamica tra sviluppo economico e sviluppo democratico trova una sua esemplare manifestazione.
I riconosciuti progressi in campo economico, di cui il trend di sviluppo del
PIL è solo uno degli indicatori, e sociale (nella sanità, nell’istruzione e in
materia di ordine pubblico e sicurezza) non possono, infatti, far dimenticare il basso livello a cui si
collocano due aree che, in senso lato, connotano il livello di vita democratica
di un paese. La ricognizione condotta dai ricercatori della Fondazione ha, infatti, evidenziato gravi
carenze ( prontamente respinte dalle autorità di Kigali) a livello di libertà
individuali, di associazione e di espressione e, ancor più, nell’esercizio
dei diritti politici, nella partecipazione
alla vita politica e nel livello di libertà e di trasparenza del momento
elettorale. L'analisi, condivisa da molti osservatori della realta' rwandese, assume una particolare valenza nel momento in cui ci si appresta a modificare la
costituzione per consentire un terzo mandato al presidente uscente, Paul
Kagame. Modifiche costituzionali che trovano fondamento, secondo i sostenitori
di questo progetto, appunto in quelli che sono gli atout della governance
rwandese: i livelli di sicurezza, di sviluppo economico e sociale raggiunti dall’attuale
leadership. Riconfermare Kagame alla presidenza significherebbe, secondo i
paladini del terzo mandato, riproporre anche per il futuro il modello vincente
che ha fin qui assicurato gli attuali trend di sviluppo.Pur non scandalizzandoci che si possa porre mano alla costituzione, anche se non ci sfuggono i rischi che ne potrebbero conseguire, non siamo del tutto sicuri che l'equazione sia valida e che il futuro debba necessariamente riservare ulteriori trend di sviluppo, senza che intervenga, magari proprio in forza di una riconferma dell'attuale leadership, un parallelo processo di crescita democratica che favorisca una reale partecipazione, nella certezza del diritto, di tutti i rwandesi alla vita politica del paese e alla condivisione del potere, in un quadro di consolidato rispetto dei diritti individuali.
mercoledì 7 ottobre 2015
Diminuiscono i poveri a livello mondiale, ma oltre la metà vive in Africa
Secondo il nuovo rapporto sulla povertà curato dalla Banca mondiale, per la prima volta il numero di persone che vive
in condizioni di estrema povertà scenderà, entro la fine di quest’anno, sotto la
soglia del 10 per cento della popolazione globale. L’istituzione internazionale
che ieri ha presentato le sue ultime proiezioni ha aggiornato la soglia per
definire il problema: è in estrema povertà chi ha meno di 1,90 dollari al
giorno (prima era 1,25), tenuto conto del reale potere d’acquisto dei singoli
Paesi. Il numero delle persone estremamente povere calerà dai 902 milioni (il
12,8% della popolazione) nel 2012 a 702 milioni, ossia il 9,6%, nel 2015.Il
miglioramento è dovuto soprattutto agli alti tassi di crescita nei paesi in via
di sviluppo, come India e Cina, che hanno permesso un più forte investimento in
educazione, sanità e spesa sociale in genere. La Banca Mondiale afferma dunque
che si è sulla via giusta per raggiungere l’obiettivo della fine della povertà
estrema entro il 2030, anche se non è che si tratti di un percorso proprio
senza ostacoli. La Banca Mondiale sottolinea inoltre come le forme della
povertà evolvono e si radicano in determinate aree geografiche. Nel 1990, oltre
la metà dei poveri viveva in Asia orientale e circa il 15% nell’Africa
subsahariana. Oggi la situazione è ribaltata. Milioni di asiatici godono di un
migliore tenore di vita (‘solo’ un 12% di questi vive in povertà estrema),
grazie al dirompente sviluppo della Cina e dei suoi vicini, mentre l’Africa è
ancora prigioniera di guerre, corruzione e sottosviluppo. Così la metà dei
“poveri estremi” di oggi vive nel Continente nero anche se nell’Africa
Sub-sahariana la povertà estrema tra 2012 e 2015 è drasticamente diminuita: dal
42,6 al 35,2 per cento della popolazione.In termini numerici siamo passati da 388,5
milioni nel 2012 ai 347,1 milioni a fine 2015.Il trend del fenomeno nelle diverse zone del mondo è illustrato nella tabella di seguito riportata, mentre la situazione del Rwanda era stata illustrata in un recente rapporto sulla le cui risultanze sono consultabili cliccando qui.
martedì 6 ottobre 2015
Indice Ibrahim per la governance: Rwanda promosso ma non sui diritti politici
E’ stato
presentato ieri l’“Indice
Ibrahim per la Governance”, la classifica realizzata dalla fondazione di Mo Ibrahim che fornisce una valutazione approfondita dello stato della governance
in ciascuno dei 54 paesi africani, presi in esame. L’IIAG 2015 comprende 93
indicatori raggruppati in quattro categorie: la sicurezza e lo stato di
diritto, la partecipazione e i diritti umani, lo sviluppo economico sostenibile
e lo sviluppo umano. In 21 paesi, di cui 5 sono tra i dieci paesi leader della
classifica, il risultato complessivo è peggiorato dal 2011. Solo sei paesi
hanno registrato un miglioramento in tutte e quattro le categorie del IIAG:
Costa d'Avorio, Marocco, Rwanda, Senegal, Somalia e Zimbabwe. La tendenza
generale evidenzia performance contrastanti a livello regionale, portando a un
crescente divario tra le diverse regioni, con l’Africa del Sud in prima fila con un punteggio medio di 58,9, seguita dall’Africa occidentale (52,4), dal Nord Africa (51,2) e dall’Africa est (44.3). I
dieci paesi con il più alto aumento del loro livello complessivo di governance
negli ultimi quattro anni, rappresentano quasi un quarto della popolazione del
continente. Cinque di questi paesi, Senegal (9 °), Kenya (14 °), il Marocco (16
°), Rwanda (11 °) e Tunisia (8), sono già tra i primi 20 della classifica dell’IIAG,
cosa che fa prevedere che possano diventare
le future grandi potenze del continente. Il miglioramento marginale del livello
complessivo di governo del continente è guidato dai progressi in solo due
categorie: Sviluppo umano e Partecipazione
e diritti umani (rispettivamente 1,2 e
0,7). Le altre due categorie, Sviluppo
economico durevole e Sicurezza e stato di diritto, da parte loro registrano un
peggioramento (-0,7 e -0,3, rispettivamente). Situazione che Mo Ibrahim,
presidente della Fondazione Mo Ibrahim, fotografa così: "Anche se, nel
complesso, i nostri cittadini africani sono decisamente più sani e vivono in
società più democratiche di quanto non fossero 15 anni fa, l’Indice 2015 mostra
che i recenti sviluppi del continente in altri settori chiave sono in una fase
di stallo o di declino, e in alcuni paesi importanti sembrano segnare il passo.
Si tratta di un campanello d'allarme per tutti noi. Solo miglioramenti condivisi
e duraturi in ciascuna delle aree di governo assicurano gli africani il futuro
che meritano e richiedono”.
Per
quanto riguarda in particolare il Rwanda, le risultanze dell’IIAG 2015,
consultabili cliccando qui, evidenziano, a fronte di
un punteggio globale di 60,7 ( 60,4 nel 2014), un punteggio di 60 per
quanto attiene la Sicurezza e lo stato di diritto, 63,5 per lo Sviluppo
economico durevole, 71 per lo Sviluppo umano a cui concorrono la protezione sociale (79,2), l’educazione (48,8)
e la sanità (85,1) e un più modesto 46,3 per la Partecipazione e diritti dell’uomo.
Questo dato ha sollevato, come già in passato, le riserve
delle autorità di Kigali, sempre allergiche a ogni critica; andando ad
analizzare le varie componenti se ne comprendono le ragioni. Infatti, emerge che quel 46,3 è il risultato medio di un 85 per quanto attiene la
parità di genere, uno dei cavalli di battaglia della governance rwandese, un
34,5 per i diritti intesi come libertà individuali, di associazione e di espressione, e un umiliante 19,3 (dato medio africano 45,9) per la Partecipazione che prende in
esame diritti politici, partecipazione alla vita politica ed elezioni libere e
trasparenti. A Kigali dovranno farsene una ragione.
venerdì 2 ottobre 2015
Papa Francesco:esiste anche il diritto a non emigrare
"La
Chiesa affianca tutti coloro che si sforzano per difendere il diritto di
ciascuno a vivere con dignita', anzitutto esercitando il diritto a non emigrare
per contribuire allo sviluppo del Paese d'origine". Lo sostiene Papa
Francesco nel Messaggio per la prossimaGiornata Mondiale del migrante e del rifugiato che verrà celebrata il 17
gennaio prossimo.Secondo il
Papa, la risposta all'attuale ondata migratoria "dovrebbe includere, nel
suo primo livello, la necessita' di aiutare i Paesi da cui partono migranti e
profughi". Infatti, "e' necessario scongiurare, possibilmente gia'
sul nascere, le fughe dei profughi e gli esodi dettati dalla poverta', dalla
violenza e dalle persecuzioni", fermo restando il dovere dell'accoglienza verso
chi e' partito e ancora partira', a cominciare dalle comunità parrocchiali,
sollecitate dal Papa a superare il timore di veder “minacciata la tranquillità
tradizionale”.
Perché sottolinea il Pontefice
"ognuno di noi e' responsabile del suo vicino: siamo custodi dei
nostri fratelli e sorelle, ovunque essi vivano. La cura di buoni contatti personali
e la capacita' di superare pregiudizi e paure sono ingredienti essenziali per
coltivare la cultura dell'incontro, dove si e' disposti non solo a dare, ma
anche a ricevere dagli altri. L'ospitalita', infatti, vive del dare e del ricevere".In definitiva, scrive il
Papa, "la solidarieta', la cooperazione, l'interdipendenza internazionale
e l'equa distribuzione dei beni della terra sono elementi fondamentali per
operare in profondita' e con incisivita' soprattutto nelle aree di partenza dei
flussi migratori, affinche' cessino quegli scompensi che inducono le persone,
in forma individuale o collettiva, ad abbandonare il proprio ambiente naturale
e culturale".
Parole chiare che
finalmente legittimano, anche all’interno della comunità ecclesiale, la
posizione di coloro che in questi mesi
hanno tentato di far sentire la voce della parte più debole della popolazione che,
per scelta o per necessità, rimane nei paesi di origine e lì attende che paesi,
organizzazioni e persone di buona
volontà portino il loro aiuto per dare concretezza al “diritto a non emigrare”.
In questi mesi, la sorte
di centinaia di milioni di africani non ha trovato alcuno spazio sui media
nazionali, tutti indistintamente alle prese con la sola punta dell’iceberg:
alcune decine di migliaia di profughi e di migranti economici.
Neppure quando i vescovi
africani il 24 agosto scorso hanno lanciato, in
occasione di un grande incontro panafricano di giovani, un appello affinchè gli stessi non si
lasciassero attrarre dalle sirene di un inesistente posto di lavoro in
occidente, ma si impegnassero in loco
per il futuro del continente, la stampa cattolica italiana, a partire dal quotidiano cattolico Avvenire, seguito dalla
gran parte dei settimanali diocesani, ha ritenuto di rilanciare l’ appello.
Forse da qui in avanti,
dopo che il Papa nel suo messaggio ha detto chiaramente che su questi problemi
“ è indispensabile che l’opinione pubblica sia informata in modo corretto,
anche per prevenire ingiustificate paure e speculazioni sulla pelle dei
migranti”, potremmo aspettarci maggiore attenzione anche alla parte sommersa
dell’iceberg, gli africani che non hanno voce e che non vanno in video.
giovedì 1 ottobre 2015
1 ottobre 1990: l’inizio della guerra civile rwandese
Cade oggi il
venticinquesimo anniversario dell’inizio
della guerra civile rwandese conclusasi nel luglio del 1994, al prezzo
di centinaia di migliaia di morti. Il 1° ottobre 1990, soldati della National
Resistance Army di origine rwandese, sotto il comando del generale maggiore
Fred Gisa Rwigyema muovono dall’Uganda alla conquista del Rwanda, prendendo il
nome di Armata Patriottica Rwandese (APR), braccio armato del Fronte Patriottico
Rwandese (FPR), l’organizzazione politica che raggruppava i profughi rwandesi di
origine tutsi, stanziati in prevalenza in Uganda, ma anche negli altri paesi
confinanti con il Rwanda, a partire dal lontano 1959. Si trattava in prevalenza
di militari inquadrati nell’esercito ugandese, di cui il generale Rwigyema era
vice ministro della difesa, essendo ministro il presidente ugandese Museveni, e
in cui molti ufficiali d’origine
rwandese occupavano posti di rilievo in particolare nell’ambito dei servizi
segreti.Il punto d’entrata in Rwanda è il posto di frontiera di Kagitumba che
cade in giornata nelle mani del 1° e 3° battaglione.L’attacco era stato
preceduto da mesi, se non anni, di preparazione nella massima riservatezza, nei
limiti consentiti dal coinvolgimento di un alto numero di persone.Gli ultimi
giorni di settembre, quelli decisivi, beneficiarono di almeno due condizioni
favorevoli all’avvio delle operazioni: l’assenza del presidente Museveni in
missione negli Stati Uniti, unitamente al suo omologo rwandese Habyarimana, che
faceva del gen. Rwigyema la più alta carica in campo, e la prossima festa
nazionale dell’indipendenza ugandese, il 9 ottobre, che giustificava
spostamenti di truppe sul territorio ugandese. Per questo il 25 settembre il
gen. Rwigyema diede il via alle operazioni dando ordine ai militari rwandesi
inquadrati negli organici dell’esercito ugandese di approvvigionarsi di armi, automezzi,
carburante e quant’altro potesse servire alle operazioni d’invasione del Rwanda
che sarebbe scattata di lì a qualche
giorno. Il generale Rwigyema, artefice dell’intero progetto di riconquista del
potere nel paese d’origine, non ebbe però modo di raccogliere i frutti di un
disegno da lungo coltivato; all’indomani dell’attacco, infatti, secondo le
ricostruzioni più attendibili, morì per un colpo di fucile alla testa, vittima
di un complotto nato all’interno della sua stessa armata, in cui troppi non
condividevano le sue linee strategiche di come arrivare a Kigali e, soprattutto, di che tipo di governo isturarvi.Nei giorni
successivi, il maggiore Paul Kagame, responsabile del personale e dell’amministrazione del DMI,
il servizio d’intelligence militare ugandese, veniva fatto rientrare dagli Usa,
dove si trovava a frequentare un corso di perfezionamento all’accademia
militare di Fort Leavenworth, e, sembra su indicazioni dello stesso presidente
ugandese Museveni, assumeva, non ancora trentatreenne, il comando delle operazioni, anche se con qualche
mugugno da parte di altri ufficiali che non ne condividevano la scelta.