Il sindaco inaugura l'acquedotto |
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mercoledì 30 maggio 2018
Amministratori locali licenziati se non raggiungono gli obiettivi
giovedì 24 maggio 2018
Il Rwanda sponsor turistico dell'Arsenal
Il
Rwanda ha sottoscritto, attraverso il Rwanda Development Board, un accordo di sponsorizzazione della maglia con la squadra di calcio inglese dell’Arsenal, militante nella Premier
League.Il
club, uno dei più grandi al mondo, promuoverà il turismo, gli investimenti e il
calcio nella nazione dell'Africa orientale con un accordo triennale.Il
logo "Visit Rwanda" sarà presente sulla manica sinistra per tutte le
partite della prima squadra, under 23 e dell'Arsenal Women.
I giocatori dell'Arsenal visiteranno il Rwanda e gli allenatori dei club ospiteranno campus
per supportare lo sviluppo del gioco nel paese."Siamo
entusiasti di collaborare con l'Arsenal e di mostrare la vitalità e la bellezza
del nostro paese", ha dichiarato l'amministratore delegato del Rwanda
Development Board, Clare Akamanzi, invitando a "visitare il Rwanda e scoprire perché siamo
la seconda economia in più rapida crescita in Africa". Al momento, non si conoscono i dettagli finanziari dell'accordo con il Consiglio per lo sviluppo del Rwanda. Emirates, la più grande compagnia aerea a lungo raggio del mondo, paga $ 40 milioni a stagione per essere il principale sponsor della maglia in un accordo che scade l'anno prossimo, secondo il quotidiano britannico Mirror.L'Arsenal, con sede a Londra, è la sesta più grande squadra di calcio del mondo, con un fatturato di 488 milioni di euro (572 milioni di dollari) nella stagione 2016-17, secondo Deloitte LLP. È quotata alla NEX Exchange di Londra e ha un valore di mercato di $ 2,9 miliardi. Azionista di maggioranza è il miliardario americano Stan Kroenke, proprietario dei Los Angeles Rams della National Football League. Da parte ruandese ci si aspetta dalla sponsorizzazione un ulteriore incremento dei flussi turistici nel Paese che ha avuto 1,3 milioni di visitatori nel 2017, di cui 94.000 hanno visitato i tre parchi nazionali di Nyungwe, Akagera e dei Vulcani. Il turismo ha generato 90.000 posti di lavoro ed è il principale percettore di valuta estera del Rwanda. Nella scelta dell'Arsenal, oltre all'oggettivo richiamo del brand della squadra, la cui maglia si calcola venga vista da 35 milioni di persone nel mondo ogni giorno, c'è sicuramente lo zampino del presidente ruandese Paul Kagame, grande tifoso della squadra londinese, che non ha mancato di criticare il manager di lunga data, Arsene Wenger, per la mancanza di successi della squadra negli ultimi dieci anni.Forse avrà maggiori soddisfazioni dal nuovo manager, lo spagnolo Unai Emery, ex allenatore del Paris Saint-Germain, che è stato ingaggiato proprio in questi giorni.
mercoledì 16 maggio 2018
Finalmente la CEI s'accorge che "aiutarli a casa loro" non significa scaricare il problema
La Commissione
Episcopale per le Migrazioni della CEI ha indirizzato alle comunità cristiane
la lettera “Comunità accoglienti, uscire dalla paura”. Il documento arriva in
occasione del 25° anniversario del precedente, “Ero forestiero e mi avete
ospitato” (1993). Nella lettera si leggono, finalmente, parole di sano realismo sul fenomeno migratorio.Si riconoscono, infatti, gli oggettivi limiti posti all'accoglienza dalle condizioni che sta vivendo il Paese là dove nella lettera si scrive: “Siamo consapevoli
che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con
le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte
prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con
creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni
semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza”. E ancora, “Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo
di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica
che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da
una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita
dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora
attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza – si legge
nella lettera - perché l’altro è visto come un concorrente e non come
un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la
stessa crescita del Paese”.
I vescovi ribadiscono altresì, alla luce del costante insegnamentoo della Dottrina sociale della Chiesa, dopo che solo pochi mesi fa sul portale della CEI era comparso l'infelice slogan "aiutiamoli a casa loro significa scaricare il problema", che « il primo diritto è
quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo
appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti,
per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per
ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente».
Diritto che non può certo essere alimentato dal modello, fin qui oggettivamente privilegiato anche in seno alla comunità ecclesiale, di una comoda e passiva accoglienza, quando non anche lucrosa, di poche decine di migliaia di migranti economici, dimenticandosi del destino delle centinaia di milioni
di persone del sud del mondo che vogliono essere aiutati a vivere nella loro terra.Finalmente, viene riconosciuta legittimità anche al lavoro dei tanti volontari, in gran parte provenienti dal mondo cattolico, impegnati nei paesi in via di sviluppo per dare concretezza al richiamato diritto a non emigrare a quelle popolazioni.
Meglio tardi che mai!
lunedì 14 maggio 2018
Il modello Rwanda come esempio per il futuro dell'Africa
Riprendiamo dal quotidiano La Provincia di Sondrio l'articolo dedicato all'uscita de Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.
Quattordici
viaggi in Rwanda dal 2003 ad oggi come
volontario dell’associazione Kwizera hanno portato il pensionato grosino,
Martino Ghilotti, 69 anni, ex dirigente bancario ad una considerazione "L’Africa può ripartire grazie agli aiuti internazionali e da una buona
governance locale. Il modello Rwanda ne è una conferma". E’ uno dei capisaldi
della sua fresca opera letteraria “Aiutiamoli a casa loro. Il modello Rwanda” pag 296 ed. Amazon, (€ 15 cartaceo e €4,99ebook). Ovviamente un titolo simile,
che in Italia è uno slogan politico ben definito non può lasciare indifferenti,
sembra una presa di posizione sull’accoglienza, tema tanto in auge nel nostro
Paese dopo l’ondata di profughi."Non ci
sono giovani ruandesi tra i migranti che
sbarcano dai barconi. E questo perché qualcuno, in anticipo di anni sui primi
barconi solcanti il Mediterraneo, li ha aiutati a casa loro: dalle grandi
istituzioni internazionali ai paesi donatori, dalle grandi Ong fino alla più
piccola delle onlus e all’ultimo dei volontari", spiega Ghilotti.
Percorsi di solidarietà
"Il mio è un
libro che dovrebbero leggere, indistintamente: i fautori dell’aiutiamoli a casa
loro da una parte; quelli dell’accoglienza, priva di regole e di realistiche
prospettive, dall’altra. I primi per dare un qualche contenuto fattuale al loro
slogan, magari facendolo evolvere in
“esportazione della solidarietà”, auspicata dall’economista Alberto
Quadrio Curzio, che dovrebbe declinarsi, come citato nel libro, su due filiere:
“quella economica, che va dall’istruzione, alla infrastrutturazione,
all’industrializzazione, alla imprenditorialità; quella civile, che va dalla
scuola, alla sanità, alla salute, alla demografia, alla parità di genere, alla
sicurezza. Gradualmente questi due percorsi di solidarietà economica e civile
(Sec) dovrebbero portare infine alla democrazia nei Paesi che mai l’hanno
avuta.”
Rispondere alle sfide
Rispondere alle sfide
"I secondi, i fautori dell’accoglienza, per rendersi conto che è
impossibile rispondere alle sfide epocali, che ci vengono dalle centinaia di
milioni di persone del sud del mondo, semplicemente prendendosi comoda cura di
poche decine di migliaia di migranti economici". Un
libro che ha la sua forza nella concretezza dei numeri, anche quelli riportati
nella postfazione, che fanno sinceramente meditare, in cui si mette a confronto
l’uso alternativo delle scarse risorse disponibili tra l’accoglienza e gli
aiuti allo sviluppo.
"Un libro- spiega l’autore- che ci costringe,
finalmente, ad alzare lo sguardo dal bagnasciuga di Lampedusa per guardare
oltre l’orizzonte e misurarsi con l’immenso continente. Si stanno creando in Rwanda le condizioni perché il
diritto a rimanere non sia un vuoto slogan, ma una reale alternativa, e la
tentazione di migrare non faccia breccia nei giovani ruandesi".
Ultimi dati dell'UNHCR su rifugiati e richiedenti asilo presenti in Rwanda
Secondo recenti statistiche rilasciate dall'UNHCR, a fine marzo 2018, in Ruanda cerano 177.369 rifugiati
e richiedenti asilo. Di questi, 92.840 sono rifugiati burundesi, 75.162
rifugiati congolesi, 8.727 richiedenti asilo e 640 rifugiati provenienti da
vari altri paesi. Quasi il 50% dei rifugiati e richiedenti asilo sono minori di
18 anni. Due campi profughi per rifugiati congolesi sono stati istituiti
rispettivamente nel 1996 e nel 1997, rispettivamente a Byumba e nei pressi di Gatsibo, dove recentemente si sono avuti due successivi atti di ribellione soffocati nel sangue ( una decina sono i morti) dalle forze di sicurezza ruandesi, e gli altri tre campi sono stati istituiti
nel 2005, 2012 e 2014. Nel 2012, l'UNHCR ha preso pieno responsabilità per la
risposta dei rifugiati congolesi. Tuttavia, dal momento che sono attesi
ulteriori 10.000 rifugiati congolesi nel 2018, l'UNICEF ha iniziato la
pianificazione di emergenza e il preposizionamento delle forniture.Il campo di
Mahama ospita attualmente 57.407 rifugiati burundesi, mentre i tre centri di
accoglienza (Bugesera, Nyanza e Gatore) ospitano un totale di 2229 rifugiati burundesi.
Per la prima volta, il nuovo centro di transito di Nyarushishi ha ricevuto 399
nuovi arrivi dal Burundi durante questo periodo di riferimento. Inoltre, ci
sono 34.922 rifugiati burundesi nelle aree urbane di Kigali e Huye.Ci sono
21.451 rifugiati che sono particolarmente vulnerabili a causa di gravi
condizioni mediche, disabilità e coloro che sono minori non accompagnati o
separati secondo l'UNHCR.
giovedì 3 maggio 2018
Progetto Mikan Baby: la consegna delle prime capre
Il I gruppo delle ragazze madri di Kisaro
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Con la consegna di una capretta a ognuna delle 25 giovani facenti parte del
primo gruppo, avviato all'interno della parrocchia di Kisaro, ha
preso il via oggi il Progetto Mikan Baby rivolto alla ragazze
madri. Il nuovo progetto parte sotto i migliori auspici forte anche di un’organizzazione
che ha messo a frutto la precedente esperienza del Progetto Mikan.Per
cominciare, la scelta delle prime 25 beneficiarie è stata fatta sulla base di
un sorteggio fra le 50 ragazze madri che erano state individuate per l’avvio di
questo progetto pilota. Le prime 25 ragazze madri hanno formato un gruppo Mikan Baby, denominato "TWITEZIMBERE MURI KRISTU"-“Progrediamo
in Cristo”, e hanno quindi eletto il consiglio di direttivo di questo gruppo
composto da: presidente, segretario e tesoriere
del gruppo, oltre che da un comitato consultivo di 3 persone. I responsabili
del gruppo dovranno anche farsi promotori, oltre che della corretta gestione
del progetto delle capre, anche di altre attività, in agricoltura o nel commercio
di prodotti agricoli, in grado di generare qualche forma di reddito atto a soddisfare
i bisogni familiari delle aderenti al gruppo e a non sentirsi isolate dalla
società o dalle loro famiglie. Le prime destinatarie
delle capre si sono immediatamente impegnate, attraverso un vero e proprio
contratto, sottoscritto alla presenza del vice parroco e di un rappresentante
di villaggio, a consegnare alle altre ragazze il primo capretto entro la
scadenza di 14 mesi. La giornata era iniziata di prima mattina con la celebrazione della Messa,
celebrata dall'Abbè Fidéle Ndereyimana, responsabile della Pastorale Giovanile
nella Parrocchia di Kisaro, che oltre a creare uno spirito di solidarietà e di
incoraggiamento morale nel cuore di queste giovani madri, ha attestato la
vicinanza della Chiesa alle loro necessità morali e materiali. Alla giornata
hanno presenziato il parroco di Kisaro, l’abbé Lucien Hakizimana, e il
responsabile del progetto per conto dell’Ass. Kwizera, l’agronomo Jean Claude Ndazigaruye.
mercoledì 2 maggio 2018
Urge cambiare registro nelle politiche di sostegno allo sviluppo
Non mancheranno di
suscitare vivaci discussioni le conclusioni a cui è giunta una commissione
presieduta dall’ex primo ministro britannico, David Cameron, promossa dalla
London School of Economics e dall'Università di Oxford, avente a oggetto "Fragilità
dello stato, crescita e sviluppo". La commissione, formata da studiosi
esperti di dinamiche di sviluppo, fra cui il prof. Paul Collier e il ruandese
Donald Kaberuka in qualità di vice di Cameron, ha rassegnato un rapporto Escaping
the fragility trap in cui si sostiene che le nazioni sviluppate che
cercavano di aiutare quelle fragili hanno commesso diversi errori e sottolinea
come i donatori internazionali dovrebbero smettere di affermare le proprie
priorità irrealistiche e adottare invece un approccio più pragmatico e paziente
per aiutare gli stati "fragili" che stanno cercando di porre fine al
conflitto e raggiungere stabilità.In passato hanno, infatti, promosso le "migliori pratiche"
delle nazioni occidentali in paesi privi di sicurezza di base, di capacità di
governo adeguate, di un plausibile funzionamento del settore privato e caratterizzate
dalla presenza di società divise, richiedendo rapide elezioni multipartitiche e
spesso politiche impopolari e dure, sostenute da istituzioni finanziarie
globali come il Fondo Monetario Interazionale, che hanno sortito spesso risultati
estremamente negativi. Perché forzare gli eventi, anche promuovendo le elezioni
multipartitiche subito dopo i grandi sconvolgimenti, non funziona. Infatti, le
elezioni convenzionali possono inavvertitamente indebolire i controlli e gli
equilibri consegnando il potere a gruppi di maggioranza, in assenza di una
previa costruzione di efficaci controlli ed equilibri di fiducia all'interno
della società in grado di conferire legittimità al vincitore dichiarato. Il
Rapporto guarda anche alle conseguenze più ampie che la fragilità di uno stato
può avere sul più ampio contesto internazionale, perché oltre a condannare le persone alla povertà; è alla base dei
fenomeni migratori e di altri quali pirateria, tratta di esseri umani e
proliferare del terrorismo. I soggetti esterni
interessati a stabilizzare un paese fragile dovrebbero essere più interessati
alla versione indigena dei pesi e contrappesi, ai meccanismi per costruire la
coesione nazionale piuttosto che alla corsa verso la democrazia rappresentativa
praticata in Occidente.