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mercoledì 30 maggio 2018

Amministratori locali licenziati se non raggiungono gli obiettivi

Il sindaco inaugura l'acquedotto
Si è dimesso nei giorni scorso il sindaco del distretto di Gicumbi, Juvenal Mudaheranwa. Pur motivate per ragioni personali, si tratta in realtà di un vero e proprio licenziamento deciso dal Consiglio consultivo distrettuale, il più alto organo decisionale a livello distrettuale, dopo che un audit  condotto su diversi progetti nel distretto aveva accertato diversi ritardi  sull’attuazione di progetti di sviluppo in programma. La mancata giustificazione di questi ritardi da parte del responsabili ha comportato il loro licenziamento. In particolare sono stati evidenziati ritardi nella costruzione del Nyamiyaga Health Center e di Rubaya Road, e sul mancato avvio, nonostante il completamento, del mercato Rubaya. Forse l’unico risultato portato a casa dal sindaco è stato l’acquedotto di Rubaya, finanziato dall’ass. Kwizera, che proprio lo stesso sindaco aveva inaugurato il gennaio scorso. Il caso del sindaco di Gicumbi non è il solo; infatti, nell’ultimo periodo, quasi un terzo dei sindaci si è dimesso. Mentre quasi tutti hanno citato "motivi personali" come  ragione  delle dimissioni, in realtà le ragioni sono altre: si tratta piuttosto di un segnale che i cittadini chiedono responsabilità ai loro leader e pretendono dagli stessi risultati della loro attività amministrativa. In mancanza di risultati gli amministratori vengono accompagnati alla porta. Il fenomeno delle dimissioni viene vissuto in Rwanda come un momento di trasparenza in cui gli amministrati dovrebbero essere messi nelle condizioni di conoscere le motivazioni che hanno portato a tale passo, senza nascondersi dietro il paravento dei “motivi personali”; in particolare, dovrebbero essere evidenziati gli obiettivi non raggiunti, così che sia chiara la situazione anche per chi subentra nel'amministrazione.

giovedì 24 maggio 2018

Il Rwanda sponsor turistico dell'Arsenal

Il Rwanda ha sottoscritto, attraverso il Rwanda Development Board, un accordo di sponsorizzazione della maglia  con la squadra di calcio inglese dell’Arsenal, militante nella  Premier League.Il club, uno dei più grandi al mondo, promuoverà il turismo, gli investimenti e il calcio nella nazione dell'Africa orientale con un accordo triennale.Il logo "Visit Rwanda" sarà presente sulla manica sinistra per tutte le partite della prima squadra, under 23 e dell'Arsenal Women.
I giocatori dell'Arsenal visiteranno il Rwanda e gli allenatori dei club ospiteranno campus per supportare lo sviluppo del gioco nel paese."Siamo entusiasti di collaborare con l'Arsenal e di mostrare la vitalità e la bellezza del nostro paese", ha dichiarato l'amministratore delegato del Rwanda Development Board, Clare Akamanzi, invitando a "visitare il Rwanda e scoprire perché siamo la seconda economia in più rapida crescita in Africa". Al momento, non si conoscono i dettagli finanziari dell'accordo con il Consiglio per lo sviluppo del Rwanda. Emirates, la più grande compagnia aerea a lungo raggio del mondo, paga $ 40 milioni a stagione per essere il principale sponsor della maglia in un accordo che scade l'anno prossimo, secondo il quotidiano britannico Mirror.L'Arsenal, con sede a Londra, è la sesta più grande squadra di calcio del mondo, con un fatturato di 488 milioni di euro (572 milioni di dollari) nella stagione 2016-17, secondo Deloitte LLP. È quotata alla NEX Exchange di Londra e ha un valore di mercato di $ 2,9 miliardi. Azionista di maggioranza è il miliardario americano Stan Kroenke, proprietario dei Los Angeles Rams della National Football League. Da parte ruandese ci si aspetta dalla sponsorizzazione  un ulteriore incremento dei flussi turistici nel Paese che ha avuto 1,3 milioni di visitatori nel 2017, di cui 94.000 hanno visitato i tre parchi nazionali di Nyungwe, Akagera e dei Vulcani. Il turismo ha generato 90.000 posti di lavoro ed è il principale percettore di valuta estera del Rwanda.  Nella scelta dell'Arsenal, oltre all'oggettivo richiamo del brand della squadra, la cui maglia si calcola venga vista da 35 milioni di persone nel mondo ogni giorno, c'è sicuramente lo zampino del presidente ruandese Paul Kagame, grande tifoso della squadra londinese, che non ha mancato di criticare il manager di lunga data, Arsene Wenger,  per la mancanza di successi della squadra negli ultimi dieci anni.Forse avrà maggiori soddisfazioni dal nuovo manager, lo spagnolo Unai Emery, ex allenatore del Paris Saint-Germain, che è stato ingaggiato proprio in questi giorni.

mercoledì 16 maggio 2018

Finalmente la CEI s'accorge che "aiutarli a casa loro" non significa scaricare il problema


La Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI ha indirizzato alle comunità cristiane la lettera “Comunità accoglienti, uscire dalla paura”. Il documento arriva in occasione del 25° anniversario del precedente, “Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993). Nella lettera si leggono, finalmente, parole di  sano realismo sul fenomeno migratorio.Si riconoscono, infatti, gli oggettivi limiti posti all'accoglienza dalle condizioni che sta vivendo il Paese là dove nella lettera si scrive: “Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza”. E ancora,  “Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza – si legge nella lettera - perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese”.
I vescovi ribadiscono altresì, alla luce del costante insegnamentoo della Dottrina sociale della Chiesa, dopo che solo  pochi mesi fa sul portale della CEI era comparso l'infelice slogan   "aiutiamoli a casa loro significa scaricare il problema", che « il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente».
Diritto che non può certo essere alimentato dal modello, fin qui oggettivamente privilegiato anche in seno alla comunità ecclesiale, di una  comoda e passiva accoglienza, quando non anche lucrosa, di poche decine di migliaia di migranti economici, dimenticandosi del destino delle centinaia di milioni di persone del sud del mondo che  vogliono essere aiutati a vivere nella loro terra.Finalmente, viene riconosciuta legittimità  anche al lavoro dei tanti volontari, in gran parte provenienti dal mondo cattolico,  impegnati nei paesi in via di sviluppo per dare concretezza al richiamato diritto a non emigrare a quelle popolazioni. 
Meglio tardi che mai! 

lunedì 14 maggio 2018

Il modello Rwanda come esempio per il futuro dell'Africa


Riprendiamo dal quotidiano La Provincia di Sondrio l'articolo dedicato all'uscita de Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.

Quattordici viaggi in Rwanda  dal 2003 ad oggi come volontario dell’associazione Kwizera hanno portato il pensionato grosino, Martino Ghilotti, 69 anni, ex dirigente bancario ad una considerazione "L’Africa può ripartire grazie agli aiuti internazionali e da una buona governance locale. Il modello Rwanda ne è una conferma". E’ uno dei capisaldi della sua fresca opera letteraria “Aiutiamoli a casa loro. Il modello Rwanda”  pag 296 ed. Amazon, (€ 15 cartaceo e €4,99ebook). Ovviamente un  titolo simile, che in Italia è uno slogan politico ben definito non può lasciare indifferenti, sembra una presa di posizione sull’accoglienza, tema tanto in auge nel nostro Paese dopo l’ondata di profughi."Non ci sono giovani ruandesi  tra i migranti che sbarcano dai barconi. E questo perché qualcuno, in anticipo di anni sui primi barconi solcanti il Mediterraneo, li ha aiutati a casa loro: dalle grandi istituzioni internazionali ai paesi donatori, dalle grandi Ong fino alla più piccola delle onlus e all’ultimo dei volontari", spiega Ghilotti.

Percorsi di solidarietà 
"Il mio è un libro che dovrebbero leggere, indistintamente: i fautori dell’aiutiamoli a casa loro da una parte; quelli dell’accoglienza, priva di regole e di realistiche prospettive, dall’altra. I primi per dare un qualche contenuto fattuale al loro slogan, magari facendolo evolvere in  “esportazione della solidarietà”, auspicata dall’economista Alberto Quadrio Curzio, che dovrebbe declinarsi, come citato nel libro, su due filiere: “quella economica, che va dall’istruzione, alla infrastrutturazione, all’industrializzazione, alla imprenditorialità; quella civile, che va dalla scuola, alla sanità, alla salute, alla demografia, alla parità di genere, alla sicurezza. Gradualmente questi due percorsi di solidarietà economica e civile (Sec) dovrebbero portare infine alla democrazia nei Paesi che mai l’hanno avuta.” 

Rispondere alle sfide
"I secondi, i fautori dell’accoglienza, per rendersi conto che è impossibile rispondere alle sfide epocali, che ci vengono dalle centinaia di milioni di persone del sud del mondo, semplicemente prendendosi comoda cura di poche decine di migliaia di migranti economici". Un libro che ha la sua forza nella concretezza dei numeri, anche quelli riportati nella postfazione, che fanno sinceramente meditare, in cui si mette a confronto l’uso alternativo delle scarse risorse disponibili tra l’accoglienza e gli aiuti allo sviluppo. 
"Un libro- spiega l’autore- che ci costringe, finalmente, ad alzare lo sguardo dal bagnasciuga di Lampedusa per guardare oltre l’orizzonte e misurarsi con l’immenso continente.  Si stanno  creando in Rwanda le condizioni perché il diritto a rimanere non sia un vuoto slogan, ma una reale alternativa, e la tentazione di migrare non faccia breccia nei giovani ruandesi". 

Ultimi dati dell'UNHCR su rifugiati e richiedenti asilo presenti in Rwanda


Secondo recenti statistiche rilasciate dall'UNHCR, a fine  marzo 2018, in Ruanda cerano 177.369 rifugiati e richiedenti asilo. Di questi, 92.840 sono rifugiati burundesi, 75.162 rifugiati congolesi, 8.727 richiedenti asilo e 640 rifugiati provenienti da vari altri paesi. Quasi il 50% dei rifugiati e richiedenti asilo sono minori di 18 anni. Due campi profughi per rifugiati congolesi sono stati istituiti rispettivamente nel 1996 e nel 1997, rispettivamente a Byumba e nei pressi di Gatsibo, dove recentemente si sono avuti due successivi atti di ribellione soffocati nel sangue ( una decina sono i morti) dalle forze di sicurezza ruandesi,  e gli altri tre campi sono stati istituiti nel 2005, 2012 e 2014. Nel 2012, l'UNHCR ha preso pieno responsabilità per la risposta dei rifugiati congolesi. Tuttavia, dal momento che sono attesi ulteriori 10.000 rifugiati congolesi nel 2018, l'UNICEF ha iniziato la pianificazione di emergenza e il preposizionamento delle forniture.Il campo di Mahama ospita attualmente 57.407 rifugiati burundesi, mentre i tre centri di accoglienza (Bugesera, Nyanza e Gatore) ospitano un totale di 2229 rifugiati burundesi. Per la prima volta, il nuovo centro di transito di Nyarushishi ha ricevuto 399 nuovi arrivi dal Burundi durante questo periodo di riferimento. Inoltre, ci sono 34.922 rifugiati burundesi nelle aree urbane di Kigali e Huye.Ci sono 21.451 rifugiati che sono particolarmente vulnerabili a causa di gravi condizioni mediche, disabilità e coloro che sono minori non accompagnati o separati secondo l'UNHCR.

giovedì 3 maggio 2018

Progetto Mikan Baby: la consegna delle prime capre

Il I gruppo delle ragazze madri di Kisaro
Con la consegna di una capretta a ognuna delle 25 giovani facenti parte del primo gruppo,  avviato all'interno della parrocchia  di Kisaro, ha preso il via oggi il Progetto Mikan Baby rivolto alla ragazze madri. Il nuovo progetto parte sotto i migliori auspici forte anche di un’organizzazione che ha messo a frutto la precedente esperienza del Progetto Mikan.Per cominciare, la scelta delle prime 25 beneficiarie è stata fatta sulla base di un sorteggio fra le 50 ragazze madri che erano state individuate per l’avvio di questo progetto pilota. Le prime 25 ragazze madri hanno formato un gruppo Mikan Baby, denominato  "TWITEZIMBERE MURI KRISTU"-“Progrediamo in Cristo”, e hanno quindi eletto il consiglio di direttivo di questo gruppo composto da:  presidente, segretario e tesoriere del gruppo, oltre che da un comitato consultivo di 3 persone. I responsabili del gruppo dovranno anche farsi promotori, oltre che della corretta gestione del progetto delle capre, anche di altre attività, in agricoltura o nel commercio di prodotti agricoli, in grado di generare qualche forma di reddito atto a soddisfare i bisogni familiari delle aderenti al gruppo e a non sentirsi isolate dalla società o dalle loro famiglie.  Le prime destinatarie delle capre si sono immediatamente impegnate, attraverso un vero e proprio contratto, sottoscritto alla presenza del vice parroco e di un rappresentante di villaggio, a consegnare alle altre ragazze il primo capretto entro la scadenza di 14 mesi. La giornata era iniziata di prima mattina con la celebrazione della Messa, celebrata dall'Abbè Fidéle Ndereyimana, responsabile della Pastorale Giovanile nella Parrocchia di Kisaro, che oltre a creare uno spirito di solidarietà e di incoraggiamento morale nel cuore di queste giovani madri, ha attestato la vicinanza della Chiesa alle loro necessità morali e materiali. Alla giornata hanno presenziato il parroco di Kisaro, l’abbé Lucien Hakizimana, e il responsabile del progetto per conto dell’Ass. Kwizera, l’agronomo Jean Claude Ndazigaruye.

mercoledì 2 maggio 2018

Urge cambiare registro nelle politiche di sostegno allo sviluppo

Non mancheranno di suscitare vivaci discussioni le conclusioni a cui è giunta una commissione presieduta dall’ex primo ministro britannico, David Cameron, promossa dalla London School of Economics e dall'Università di Oxford, avente a oggetto "Fragilità dello stato, crescita e sviluppo". La commissione, formata da studiosi esperti di dinamiche di sviluppo, fra cui il prof. Paul Collier e il ruandese Donald Kaberuka in qualità di vice di Cameron, ha rassegnato un rapporto Escaping the fragility trap in cui si sostiene che le nazioni sviluppate che cercavano di aiutare quelle fragili hanno commesso diversi errori e sottolinea come i donatori internazionali dovrebbero smettere di affermare le proprie priorità irrealistiche e adottare invece un approccio più pragmatico e paziente per aiutare gli stati "fragili" che stanno cercando di porre fine al conflitto e raggiungere stabilità.In passato hanno, infatti,  promosso le "migliori pratiche" delle nazioni occidentali in paesi privi di sicurezza di base, di capacità di governo adeguate, di un plausibile funzionamento del settore privato e caratterizzate dalla presenza di società divise, richiedendo rapide elezioni multipartitiche e spesso politiche impopolari e dure, sostenute da istituzioni finanziarie globali come il Fondo Monetario Interazionale, che hanno sortito spesso risultati estremamente negativi. Perché forzare gli eventi, anche promuovendo le elezioni multipartitiche subito dopo i grandi sconvolgimenti, non funziona. Infatti, le elezioni convenzionali possono inavvertitamente indebolire i controlli e gli equilibri consegnando il potere a gruppi di maggioranza, in assenza di una previa costruzione di efficaci controlli ed equilibri di fiducia all'interno della società in grado di conferire legittimità al vincitore dichiarato. Il Rapporto guarda anche alle conseguenze più ampie che la fragilità di uno stato può avere sul più ampio contesto internazionale, perché oltre a condannare  le persone alla povertà; è alla base dei fenomeni migratori e di altri quali pirateria, tratta di esseri umani e proliferare del terrorismo. I soggetti esterni interessati a stabilizzare un paese fragile dovrebbero essere più interessati alla versione indigena dei pesi e contrappesi, ai meccanismi per costruire la coesione nazionale piuttosto che alla corsa verso la democrazia rappresentativa praticata in Occidente.