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lunedì 30 giugno 2014

Il Rwando 34° fra gli "Stati più fragili"

Il Fund for Peace, Fondo per la pace, un’organizzazione non governativa statunitense impegnata nella prevenzione dei conflitti e nella promozione di stabilità e pace, ha pubblicato in questi giorni la decima edizione del suo “Indice degli stati falliti”, ribattezzato a partire da quest’anno “Indice degli stati più fragili”. L’Indice che si basa su 12 indicatori  ( quattro sociali, due economici e sei politici), senza pretendere l’attendibilità di un’indagine scientifica ma basandosi sulle elaborazioni di informazioni provenienti da milioni di documenti disponibili pubblicamente, mira a fornire utili indicazioni per pervenire a un quadro d’insieme circa lo stato dei singoli paesi. Il poco invidiabile primato di stato più “fragile” , su 178 paesi considerati, è andato per il 2014 al Sud Sudan seguito da Somalia (in prima posizione dal 2008 al 2013), Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, tutti paesi considerati “ad altissimo rischio”. Undici paesi fanno parte della seconda classe  – “a rischio elevato” – fra cui il Ciad, Guinea, Costa d’Avorio e Guinea Bissau. La terza fascia dei paesi “ a rischio” comprende 18 paesi, per la gran parte africani, compreso il Rwanda che si colloca, con un punteggio di 90,5, al 34° posto con un valore di 90,5, in peggioramento rispetto all’anno precedente in cui si posizionava al 38° posto con un punteggio di 89,3.
L’andamento negli anni del Rwanda, come si evince dal grafico riportato qui a lato, è caratterizzato da tendenziale peggioramento dopo il buon trend degli anni dal 2006 al 2008. Le situazioni più critiche sono evidenziate dai punteggi più alti che riguardano l'indicatore dei conflitti etnici (8,5)  piuttosto che le dinamiche politiche in senso lato (8,2).                                                                                                                                               

sabato 28 giugno 2014

La Comunità di Sant’Egidio media per il disarmo del FDLR

Ospiti della Comunità di Sant'Egidio, l'ong italiana che ha già conseguito diversi risultati nell'opera di mediazione per il raggiungimento di accordi di pace tra parti in conflitto in Africa, il 26 giugno si sarebbero incontrati a Roma gli inviati speciali internazionali per i Grandi Laghi, guidati da Mary Robinson, il Rappresentante del Segretario Generale Ban Ki-moon, per la regione e una delegazione del FDLR,Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda raggruppamento fondato nel 2000 dai rifugiati hutu rwandesi  che Kigali accusa di aver partecipato al genocidio. L'obiettivo, secondo le Nazioni Unite, è stato quello di discutere su come "  accelerare il processo di disarmo "e" definire le opzioni possibili per conseguire questo obiettivo  ", il tutto nel quadro dell'accordo per consentire la pace nel Congo orientale firmato da undici paesi della regione il 24 febbraio 2013 ad Addis Abeba, sotto l'egida dell'Unione africana e delle Nazioni Unite. L'incontro è coperto dal massimo riserbo e non sono finora trapelati particolari sull'andamento dei lavori. Il Rwanda sembra non aver gradito e, prendendo spunto dal fatto che era stato dato un salvacondotto al presidente facente funzione del FDLR, Victor Byiringiro, , per farlo arrivare a Roma, ha protestato nei confronti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui peraltro fa parte, minacciando di ritirare la sua partecipazione al quadro dell'accordo di Addis Abeba.

lunedì 23 giugno 2014

Sulla pelle dei profughi

Il 20 giugno si è celebrata la Giornata Mondiale del Rifugiato, appuntamento annuale voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che da oltre dieci anni ha come obiettivo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla condizione, spesso sconosciuta ai più, di questa particolare categoria di migranti.Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale le persone in fuga nel mondo supera i cinquanta milioni (leggi qui).Anche il Rwanda è destinatario di significativi flussi di profughi provenienti  prevalentemente dalla regione del nord Kivu. Sono infatti quasi 75000 i congolesi  distribuiti nei cinque campi profughi gestiti dall’ UNHCR a: Nyabiheke, Kiziba, Gihembe, Kigeme e Mugombwa. Gli ultimi due campi sono stati aperti nel 2012 e l'anno scorso e ospitano rispettivamente 18.000 e 7.000 profughi; i restanti campi sono attivi dall'ormai lontano 1996. Un numero decisamente maggiore, 171.126, si trovano invece  in Uganda. 
Campo profughi nella zona di Gatsibo
Su questi 246.126 si sta giocando una sgradevole partita diplomatica tra le autorità congolesi e quelle dei paesi ospitanti, con i profughi che rischiano di recitare il ruolo di vittime sacrificali diventando strumenti di pressione nella contesa che, da troppi anni, vede coinvolti i paesi dell'area dei Grandi laghi. Già in un precedente post avevamo espresso certe perplessità sul fatto che i congolesi del Kivu, area di guerra da ormai un ventennio, dovessero essere trasferiti nei paesi confinanti piuttosto che in altre zone all’interno dell’immenso Congo. Nei giorni scorsi il governatore congolese della provincia del Nord Kivu, Julien Paluku, ha stigmatizzato il comportamenti di certi politici "disonesti" dei paesi vicini che, a suo dire, inibiscono il rimpatrio dei rifugiati congolesi, nonostante l'impegno assunto in tal senso nel passato, che vivono in Uganda e Rwanda, con false rappresentazioni della situazione, come se il Congo non volesse far rientrare in patria questi suoi cittadini o rappresentando la situazione congolese come invivibile.Oppure, come fa un articolo odierno del giornale rwandese  The New Times, far intendere a questi profughi che potranno avere un futuro migliore lontano dal paese d'origine. Lo scontro, non tanto sotterraneo a sentire le notizie di questi giorni sulle scaramucce di frontiera, che oppone Rwanda e Uganda da una parte e Congo dall'altra ha questa ulteriore appendice che coinvolge migliaia di persone, in prevalenza donne e bambini, anche loro vittime di una delle crisi tra le più gravi e dimenticate al mondo. 

lunedì 16 giugno 2014

Kaberuka, presidente dell'ADB, visto da Jeune Afrique

Anche se a qualcuno la cosa potrà sorprendere a ad altri, magari, creare fastidio, il rwandese oggi probabilmente piu' apprezzato al mondo e' Donald Kaberuka, presidente della Banca Africana di Sviluppo -ADB, già africano dell’anno 2013. Lo conferma il profilo che ne traccia Jeune Afrique nel suo ultimo numero, dove lo dipinge come il presidente  che ha lasciato il segno piu' significativo fra tutti quelli che hanno guidato l'ADB, in questi primi cinquantanni di vita. Alla presidenza della Banca  era arrivato con una elezione plescitaria, dopo essere stato  ministro delle finanze del Rwanda tra il 1997 e il 2005,  da tutti ritenuto, scrive il settimanale, vero "architetto del miracolo economico del Ruanda".Nel suo mandato da presidente ha prima risollevato e quindi concorso a portare l'ADB ad essere riconosciuto come uno dei piu' solidi istituti finanziari mondiali. Lo conferma la tripla A che l'agenzia di rating statunitense Fitch ha assegnato all'istituzione panafricana, confermando il suo posto tra le poche banche internazionali più solvibili del mondo. Ne è altresì testimonianza la scelta della Cina di affidareall’ADB, la gestione esclusiva dell’Africa Growing Together Funds, un fondo interamente finanziato da Pechino con una dotazione  di 2 miliardi di dollari (€ 1,5 miliardi). L’ntervista di Jeune Afrique, che avviene a poco meno di un anno della scadenza del secondo e ultimo mandato,  si conclude con l’immancabile domanda, peraltro rimasta senza risposta, circa il possibile futuro di questo economista che da  quasi sconosciuto dieci anni fa quando assunse la presidenza, “oggi è diventato una figura importante nella finanza africana e internazionale”.In altri contesti Donald Kaberuka sarebbe definito una risorsa importante per il proprio paese d’origine, come ipotizzato in un precedente post, in Rwanda potrebbe essere al contrario ritenuto da chi conta un ingombrante concorrente, magari proprio per le prossime  elezioni presidenziali del 2017. E’ quindi ipotizzabile un impegno di Kaberuka lontano dal Rwanda, in un contesto internazionale, magari operando ancora a favore del continente africano  “che deve prendere in mano il proprio destino”. Se invece dovesse tornare nel paese d’origine e gli riuscisse di assumere ruoli politici di rilievo, questo semplice fatto starebbe a significare una positiva evoluzione della dialettica politica all’interno della governance Rwandese .

sabato 14 giugno 2014

Gli orti africani di Slow Food: tanto marketing e qualche dubbio

Nyinawimana: 20 ettari di terrazzamento realizzati
dall'associazione Kwizera Onlus
Creare 10.000 orti in Africa: questo l'ambizioso progetto di  Slow Food, la nota associazione promosso da Carlo Petrini. Per  ogni orto servono 900 euro. Finora ne sono stati realizzati 1207, di cui 39 in Rwanda, distribuiti nella zona di Musanze e di Muhanga. Qualche osservatore ha approfondito il progetto, scoprendo che dei 900 euro solo 250 vanno alla realizzazione dell'orto, i rimanenti 650 euro vengono così spesi: 200 per la costruzione e rafforzamento della rete Slow Food africana, 100 per il Diritto al viaggio,100 per il Diritto allo studio, 50 per Stampa e distribuzione di materiale didattico e di comunicazione, 200 per il Coordinamento generale del progetto. All'argomento ha dedicato un articolo Il Giornale, in cui si stigmatizzava il fatto, a cui ha risposto piccato Carlo Petrini con un lungo intervento comparso sul sito dell'associazione dal titolo " Africa Slow Food non sta facendo solo una serie di orti, sta promuovendo un'idea di agricoltura". Ed eccola l'idea di agricoltura a cui mira Slow Food " In Africa Slow Food non sta facendo semplicemente una serie di orti (cento, mille o diecimila) ma sta promuovendo un'idea di agricoltura, basata sulla conoscenza del territorio, sul rispetto della biodiversità e delle culture locali. Un'agricoltura capace di sfamare le comunità africane senza snaturare i rapporti sociali e devastare l'ambiente, ma puntando sulla dignità delle comunità (della loro storia, del loro sapere), sul rispetto del territorio e del suo equilibrio ecologico. Per questo negli orti Slow Food si coltivano varietà tradizionali di ortaggi, frutta ed erbe aromatiche e medicinali (più adatte al territorio), si costruiscono semenzai per riprodurre i semi (per non doverli acquistare ogni anno e preservare la biodiversità), si realizzano compostiere con scarti vegetali, letame e cenere (per evitare di spendere e di uccidere il terreno con fertilizzanti chimici), si difendono le piante con metodi naturali, come i preparati di ortiche (per evitare di acquistare pesticidi, avvelenando terra e acqua), si risparmia l'acqua (raccogliendo l'acqua piovana, conservano l'umidità del terreno con buone pratiche, come la pacciamatura, impiegando sistemi di irrigazione a goccia), si destina il raccolto al consumo familiare o alle mense (nel caso degli orti scolastici) e si vendono le eccedenze sui mercati locali o in piccoli luoghi di ristoro che nascono accanto agli orti". Questa la filosofia, poi subentra la pratica e la calcolatrice ci dice che per i 1027 finora realizzati e finanziati, Slow Food ha raccolto 1.086.300 euro, di cui 180.000 sono andati al coordinamento del progetto, a cui se ne aggiungono altrettanti per la costruzione della rete africana di Slow Food, 90.000 per i viaggi (per incontri tra le diverse comunità all'interno del continente) altrettanti per borse di studio e 45.000 per stampa e comunicazione. Come si vede sono cifre importanti, soprattutto quei 360.000 euro riconducibili, direttamente o indirettamente, all'organizzazione del progetto e al consolidamento della struttura di Slow Food. Già nell'articolo de Il Giornale, l'articolista aveva raccolto la voce di volontari di altre associazioni che con cifre più modeste promuovevano progetti di ben altra "concretezza". Tornando ai 39 orti rwandesi, confidiamo di poterli visitare in occasione di una prossima visita nel paese, per vedere che tipo di applicazione trovi la filosofia di Slow Food che, nel caso specifico degli orti africani e della loro coltivazione, ci ha riportato alla mente, non sappiamo perché, la celebre frase attribuita alla regina di Francia, Maria Antonietta, che davanti al popolo rumoreggiante per la fame se ne uscì con il famoso " se non hanno pane dategli brioches". Per quanto riguarda il progetto Orti Africani, un modello d'eccellenza in termini di marketing ma tutto da verificare in termini di ritorno per i reali destinatari, resta comunque il fatto, difficilmente smentibile, che una parte importante dei soldi raccolti per l'Africa è rimasta in Italia.

martedì 10 giugno 2014

A volte anche i magistrati stavano a guardare

Silvana Arbia, autrice del libro “Mentre il mondo stava a guardare” sulla sua esperienza quale pubblico ministero presso il TIPR-Tribunale Internazionale Penale per il Rwanda, di cui abbiamo parlato in un precedente post, si è candidata, senza peraltro risultare eletta, alle recenti elezioni europee nella lista di sinistra L’Altra Europa con Tsipras. In un suo intervento in campagna elettorale, parlando dell’opera di “supplenza” esercitata dalle organizzazioni cattoliche nei diversi campi del sociale in Italia ricordava quanto ebbe “modo di riscontrare nelle terre dell’Africa, nel periodo in cui ho operato in Ruanda (e non solo) per conto delle Nazioni Unite, dove l’impegno delle missioni cattoliche, suore e sacerdoti, é ancora fondamentale per quelle popolazioni martoriate dalla povertà e dai conflitti interni.” Tale sensibile vicinanza  alla “supplenza” del mondo cattolico ci riporta alla sua fatica letteraria in cui non ricordiamo di aver visto trattato uno degli avvenimenti più tragici e, al tempo stesso, meno conosciuti e indagati della tragedia rwandese di cui cadeva il ventesimo anniversario ( passato sotto silenzio se si guarda il web) proprio in questi giorni. Ci riferiamo a quanto accadde il 5  giugno 1994 quando, nei pressi di Kabgayi , furono uccisi da militari del FPR  tre vescovi, nove preti, il superiore di una congregazione religiosa, oltre a due minorenni.Un sacerdote testimone ha così descritto i fatti. Le autorità rwandesi hanno catalogato l'eccidio come  il deprecabile gesto di vendetta di un sottoposto, i cui parenti erano stati uccisi, suicidatosi immediatamente dopo; diversi osservatori internazionali  hanno invece inquadrato quanto successo come un’azione pianificata dall'alto per eliminare i vertici della chiesa cattolica. Proprio in quest'ultima versione, come crimine di guerra, l'eccidio di Kabgayi è stato portato all’attenzione anche del TPIR, che, dopo una più o meno rapida investigazione, pensò bene di restituire il dossier al Rwanda, attirandosi numerose  critiche per aver disatteso la Risoluzione 1503 del Consiglio di sicurezza ONU che definiva le competenze del prosecutor. Di quel tribunale Silvana Arbia era  chief of prosecutions. I presunti responsabili furono arrestati dalle autorità rwandesi nel giugno 2008 e successivamente blandamente sanzionati: due degli imputati, i più alti in grado, furono assolti e altri due condannati a otto anni. 

giovedì 5 giugno 2014

Cinquantenario delle relazioni Santa Sede-Rwanda

Ricorre domani, 6 giugno, il cinquantesimo anniversario dell'erezione della nunziatura apostolica  della Santa Sede presso il governo del Rwanda, in forza del breve Quantum utilitatis di Paolo VI, con la contemporanea nomina quale primo nunzio apostolico di S.E. mons Vito Roberti. Il governo rwandese provvederà, a sua volta, a nominare un proprio ambasciatore, che presenterà le proprie lettere di credenziali in data 15 settembre dello stesso anno. Attualmente, risulta accreditato quale ambasciatore rwandese presso la Santa Sede il titolare dell'ambasciata rwandese a Bruxelles, Joseph Bonesha, che ha presentato le proprie lettere credenziali a papa Benedetto XVI il 16 giugno 2005, rivolgendo allo stesso un discorso in cui veniva espresso l'alto apprezzamento delle autorità e del popolo rwandese per il ruolo positivo svolta dalla Chiesa cattolica nel processo di ricostruzione nazionale, ispirato a un principio di giustizia "equitable" che favorisca la pace e la convivenza pacifica tra i rwandesi. Merita altresì  sottolineare come, in quella sede, l'ambasciatore implorasse "la conprensione di Vostra Santità affinchè l'incolpazione di un religioso per i suoi comportamenti individuali nel genocidio rwandese non sia percepita come un'aggressione portata contro l'Istituzione ecclesiale, ma piuttosto che ciò interpelli l'autorità politica ed ecclesiasistica a rafforzare il loro paternariato e la loro complementarietà nella promozione dei valori umani e morali oltre quelli spirituali". Propositi che, purtroppo, sono andati via via scemando  soppiantati dai sempre più frequenti "appelli" al Papa per ottenere dallo stesso una richiesta di perdono a nome della Chiesa.
Nel proprio discorso, papa Benedetto XVI, oltre a ricordare l'impegno, nei diversi campi, della Chiesa locale a favore della popolazione rwandese,  esprimeva l'auspicio che gli sforzi in corso per attuare una giustizia veramente riconciliatrice possano servire al consolidamento dell'unità nazionale.
Dall'inizio del 2012, la nunziatura è retta da S.E. mons. Luciano Russo. 

lunedì 2 giugno 2014

La comunità internazionale chiede al FDLR di deporre le armi

Domenica scorsa, gli inviati speciali per la regione dei Grandi Laghi delle Nazioni Unite, dell'Unione Africana, dell'Unione europea e degli Stati Uniti hanno sollecitato "la resa completa di tutti i combattenti" del FDLR-Forze democratiche di liberazione del Rwanda, i miliziani hutu, molti dei quali partecipanti agli atti genocidari del 1994, rifugiatisi nella Repubblica democratica del Congo (RDC) all'indomani della conquista del potere da parte del FPR. Chi non accetterà di deporre le armi sarà oggetto delle iniziative militari dell'esercito congolese (FARDC) e del contingente militare dislocato in zona da anni dall'ONU (MONUSCO).Chi invece accoglierà l'invito a deporre le armi sarà rimpatriato nell'ambito del progetto DDR/RR(disarmo, smobilitazione, rimpatrio, reintegrazione e reinserimento).Quello che suona come un vero e proprio ultimatum giunge all'indomani del recente annuncio dato dai vertici del FDLR di volersi "concentrare sulla lotta politica" in Rwanda e dei primi episodi di consegna delle armi da parte di un centinaio di giovani combattenti. Sembrano stringersi i tempi per una soluzione dell'annosa querelle sulla presenza di questi combattenti nella zona del Kivu. Certo che se l'ultimatum dovesse portare allo smobilizzo delle milizie del FDLR, calcolate dagli osservatori tra 1500 e 4000 uomini per la gran parte giovani che nel 1994 erano bambini o poco più, il Rwanda sarà costretto a rivedere radicalmente la propria politica nei confronti della Repubblica democratica del Congo (RDC). In questi anni, infatti, forte dell'alibi della minaccia alle frontiere rappresentata dalla presenza delle milizie del FDLR, il Rwanda ha mantenuto una forte pressione sul grande vicino, sia in termini politici che militari, con indubbie ricadute anche sul fronte economico a livello di sfruttamento delle ricchezze minerarie del sottosuolo del Kivu. Nonostante l'impegno della comunità internazionale non sarà, quindi, facile pervenire a una soluzione condivisa che porti a una reale pacificazione del Kivu e, forse, si scoprirà che debellate le milizie del FDLR, il loro posto sarà preso da vecchie e nuove milizie che fungeranno da paravento dietro cui si nasconderanno i saccheggiatori delle ricchezze del Kivu, come ben aveva ipotizzato il noto scrittore di spy story, John Le Carré, in un suo romanzo, Il canto della missione, ambientato proprio in questo contesto e di cui avevamo parlato in un nostro precedente post.