L'incapacità delle economie dei paesi dell'Africa subsahariana a soddisfare, dopo due decenni di espansione economica, le attese della popolazione giovanile di avere un posto di lavoro, potrebbe favorire l'insorgere di proteste sociali in grado di innescare fenomeni di instabilità politica.Queste sono le conclusioni a cui perviene Dani Rodrik, professore di Scienze Sociali presso l'Institute for Advanced Study di Princeton, New Jersey, in una sua analisi, apparsa su The Sunday Time, in cui prende in esame il trend di sviluppo che ha interessato l'economia dell'Africa subsahariana negli ultimi due decenni.In particolare Rodrik s'interroga se gli ottimi trend di sviluppo che hanno caratterizzato i paesi della zona a partire dagli anni novanta, compreso il Rwanda , potranno protrarsi nel tempo e, soprattutto, da dove in futuro potranno arrivare i guadagni di produttivita' delle singole economie che in questi anni hanno potuto beneficiare dell'aumento della domanda interna di beni nazionali e dell'uso piu' efficiente delle risorse. La risposta e' che i paesi africani non sono in grado di replicare il modello di sviluppo industriale di cui sono stati capaci i paesi asiatici che " hanno saputo trasformare i loro agricoltori in operai di produzione, diversificare le loro economie, ed esportare una gamma di prodotti sofisticati".Il motivo risiede in una realtà evidenziata da altri ricercatori: il continente africano sta "crescendo rapidamente ma si sta trasformando lentamente."
Infatti, l'alta potenzialita' d'industrializzazione, derivante dalla consistente presenza di forza lavoro con un costo della manodopera piu' basso rispetto ai gia' bassi salari cinesi, sconta i vincoli della scarsita' di infrastrutture e delle pastoie burocratiche (anche se questo specifico riferimento non e' applicabile al Rwanda dove c'e stato un effettivo snellimento delle procedure per il fare impresa). Recenti ricerche evidenziano che meno del 10 per cento dei lavoratori africani ha trovato lavoro nel settore manifatturiero, e tra questi solo un decimo lo ha trovato in aziende moderne. Nonostante i tassi di crescita elevati, l'Africa sub-sahariana è meno industrializzata oggi di quanto lo fosse nel 1980, causa principalmente gli scarsi investimenti privati in nuove imprese industriali che possano promuovere un processo di trasformazione strutturale. Come in tutti i paesi in via di sviluppo, gli agricoltori in Africa si stanno riversando nelle città senza peraltro che, come avvenuto in Asia orientale, vadano a lavorare nelle industrie ma limitandosi ad ingrossare le fila degli addetti al commercio e ai servizi.Lo stesso sviluppo del Rwanda, con un PIL con un aumento medio annuo del 9,6 per cento a partire dal 1995 (con reddito pro capite in aumento ad un tasso annuo del 5,2 per cento) e' dipeso da servizi non commerciabili, in particolare l'edilizia, i trasporti, alberghi e ristoranti.Quanto fatto in campo sociale ( salute, istruzione ecc), con i conseguenti miglioramenti in termini di reddito, da solo non e' sufficiente per imprimere un dinamismo economico: anche in Rwanda, come in altri paesi della zona, manca quel tessuto industriale capace di trasformare le potenzialita' esistenti in una reale crescita produttiva. L'attuale struttura di un'economia basata su un settore informale fatto di micro imprese e attivita' non ufficiali puo' forse bastare per assorbire la forza lavoro urbana, fungendo da ammortizzatore sociale, ma non puo' certo fornire il dinamismo produttivo mancante.Se non hanno ragione coloro che sostengono che la trasformazione strutturale c'e ma non ha ancora trovato riscontro nei dati macroeconomici, l'Africa potrebbe, secondo Rodrik, andare incontro ad alcune gravi difficoltà nei prossimi decenni che, a nostro avviso, potrebbe interessare anche lo stesso Rwanda.
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