Hutu-Tutsi Alle radici del
genocidio rwandese è un libro uscito nel 2000 presso la Bollati
Boringheri editori ( pag. 187, €18,08) come rielaborazione della tesi di laurea di Michela
Fusaschi, attualmente docente in Antropologia Culturale presso l’Università Roma III. Il lavoro si propone di scandagliare le ragioni profonde
della tragedia che ha sconvolto il Rwanda nel 1994, analizzandone le premesse
storico-antropologiche. Avvalendosi della vasta letteratura etnografica e sociologica
sul Rwanda( nella bibliografia vengono citati oltre 170 autori), ripercorre
tutta la storia precoloniale e il successivo periodo della dominazione tedesca
prima e belga poi, fino ad arrivare all’indipendenza e al periodo repubblicano
che sfocerà nella guerra civile del 1990-94 e alla catastrofe finale della
primavera di quell’anno. In particolare, indaga tradizioni e miti di quella
società, evidenziandone le relative dinamiche, in particolare quelle del
potere, e gli istituti che ne regolamentavano la vita, come l’ubuhake (il contratto di prestazione vigente tra due persone). Una vera miniera di informazioni che chi conosce anche solo un
po’ il Rwanda saprà apprezzare.
Tale percorso porta la studiosa a pervenire alla
tesi, attualmente quasi unanimemente condivisa almeno dagli studiosi rispettosi
del politically correct, secondo cui “ le
categorie Tutsi e Hutu erano già presenti
in epoca precoloniale, ma in quel periodo non avevano significato
discriminante ed esclusivo che verrà assegnato in seguito e che può definirsi costruzione
o finzione coloniale dell’etnia” (pag. 121) e ancora “le cosiddette etnie
rwandesi Hutu, Tutsi e Twa furono di fatto inventate dagli europei”
(pag. 122) a fronte di una situazione precoloniale dove le tre entità avevano
trovato un “equilibrio che andava oltre una stratificazione sociale che si
presentava come fortemente gerarchizzata” ( pag. 87).
L’autrice trova un esempio
di questo equilibrio nella costruzione di Karinga ( i rwandesi preferiscono scrivere Kalinga), il tamburo simbolo della regalità, a cui
dedica diverse pagine corredate da tre
appositi disegni, che la portano a ipotizzare che nella sua costruzione “si
realizzasse, almeno a livello simbolico, una occasione di integrazione fra allevatori
Tutsi e agricoltori Hutu” (pag. 81). Peccato che tale sforzo di trovare
un’armonia, che forse non c’era, cada quando a pag 140, trattando
della richiesta avanzata dagli oppositori della monarchia di distruggere Karimba come simbolo regale sia costretta a menzionare un'altra ragione della richiesta di cui non aveva minimamente fatto menzione nella precedente descrizione: Karimba portava come ornamento gli attributi maschili rinsecchiti dei re Hutu vinti in
battaglia dal Mwami (il re). Tutta presa a confezionare l’ipotesi dell’armonia tra i gruppi, l’autrice liquida la questione degli ornamenti umani come “una convinzione” degli oppositori e non
come un fatto conosciuto e acclarato, sicuramente meritevole di una qualche spiegazione, almeno per continuare a sostenere la tesi del Karimba come simbolo unificante.
Altre, a nostro avviso, sono le forzature introdotte nel testo per pervenire
alla tesi che si intende sostenere. Non sembra avere riscontro documentale
l’affermazione che anche gli Hutu potessero diventare abiiru, gli uomini
dei segreti regali, veri e propri tutori del re e regolatori delle dinamiche
dinastiche. Inoltre, come si può parlare di schiavitù diffusa ( pag. 106) senza
sprecare una parola per chiarire chi siano i soggetti attivi e passivi di tale odioso
istituto; forse perchè ne sarebbe uscito un quadro non coerente con la tesi di fondo? Infine, lascia perplessi lasciare totalmente privo di una valutazione il
documento emanato nel maggio del 1958
dai grandi servitori della corte del mwami in cui si sostiene “le relazioni tra noi (Tutsi) e loro (Hutu)
sono state dal passato più remoto a oggi basate sulla servitù, non c’è dunque
fra loro e noi alcun fondamento di
fratellanza ………. Dato che i nostri re
hanno conquistato il paese degli Hutu uccidendo i loro monarchi e li
hanno asserviti, come possono oggi pretendere di essere i nostri fratelli?” (
pag 134). La fondatezza o meno di tali affermazioni ci pare non essere proprio ininfluente rispetto alle tesi
sostenute. Ci fermiamo qui, ma ci sarebbe altro su cui discutere. Può essere che la tesi della Fusaschi e condivisa da molti - tutta
colpa dei colonialisti- sia fondata,
gli argomenti portati a suo sostegno non ci hanno però del tutto convinti.Forse una rivisitazione del testo da parte dell'autrice, con alle spalle oltre un decennio di impegno scientifico, potrebbe portare a limare alcune forzature dettate da entusiasmi giovanili; ne guadagnerebbe il testo anche se non siamo sicuri che ne venga rafforzata la tesi assunta. Da parte
nostra, sull’argomento siamo più propensi
a credere alle tesi del religioso rwandese André Sibomana espresse in J’accuse per il
Rwanda ed. EGA 1998 ( vedi e book Kwizera-Rwanda
pag. 96).
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