Di fronte alle diverse interpretazioni che possono essere date alle politiche di cooperazione allo sviluppo e al ruolo degli aiuti, riproponiamo questo paragrafo tratto dal libro Aiutiamoli a casa loro Il modello Rwanda.
Aiutiamoli a casa loro
Di fronte a queste sfide, molti ritengono che una
risposta possibile possa essere quella di concorrere a favorire le condizioni
giudicate presupposto necessario a che le politiche di sviluppo avviate in
Africa abbiano successo: favorire “la qualità delle politiche pubbliche,
l'impegno dei governi a un uso responsabile delle risorse e la capacità dei
cittadini di monitorare il loro operato. La lotta contro la corruzione è
cruciale. La strada è quella di rinforzare le capacità del settore pubblico e
di costruire una massa critica di cittadini informati, stimolando il dialogo su
ciò che funziona in Africa e condividendo conoscenze sulle soluzioni alle sfide
africane. Il futuro dell’Africa si basa sulla conoscenza, l’imprenditorialità e
il buon governo” (5). La concretizzazione di tale approccio è riassumibile
nella formula - Aiutiamoli a casa loro – che, alla prova dei fatti, può
rivelarsi un’efficace politica, a patto che la solidarietà venga declinata
con lo sussidiarietà, intesa come impegno diretto dei governanti e delle
società civili dei paesi destinatari a fare la loro parte, per cessare di
essere mera assistenza e diventare fattore di sviluppo. Una politica che
risponda innanzitutto a un principio di equità e secondariamente a un efficace
utilizzo delle scarse risorse finanziarie disponibili. E', infatti, equo
ricordarci oltre che delle decine di migliaia di migranti economici (che per
correttezza sarebbe bene distinguere dalla minoranza degli aventi diritto alle
forme di protezione internazionale) anche delle centinaia di milioni di
africani, totalmente assenti da ogni dibattito sul fenomeno migratorio, che
rimangono nei rispettivi paesi e lì vogliono costruirsi un futuro dignitoso. Si
pensi in particolare a quell’ultimo miliardo dei 58 paesi più poveri, per la
gran parte piccoli paesi africani, destinati a diventare sempre più poveri in
assenza di adeguati e articolati interventi a sostegno del loro sviluppo (6).
E’ altresì corretto chiedersi quale sia il miglior utilizzo delle ingenti
risorse finanziarie che vengono comunque stanziate dai governi dei paesi di
accoglienza per far fronte ai flussi migratori, tenuto conto del ben diverso
valore di un euro in termini di merci e servizi acquistabili a seconda che lo
stesso sia speso da noi, piuttosto che in Africa. In questa analisi, ci
conforta il mutato clima culturale che si respira da qualche tempo in Italia e
in Europa. Dopo essere stato per lungo tempo un abusato e strumentale slogan
propagandistico, lasciato alla declinazione, non sempre misurata, di talune
forze politiche, “Aiutiamoli a casa loro” sembra conoscere un’improvvisa
riscoperta dopo essere stato sdoganato a livello di dibattito politico e
mediatico da recenti uscite di leader politici da sempre contrari a un simile
approccio al fenomeno migratorio. Merita, al riguardo, ricordare come nel
maggio del 2014, il ministro del Tesoro italiano, Pier Carlo Padoan,
intervenendo in margine al convegno annuale della Banca Africana di
Sviluppo (AfDB), "L'Africa e l'economia mondiale", tenutosi a
Kigali, capitale del Rwanda, dichiarava: “l'Europa dovrebbe fare di più per
migliorare le condizioni delle persone perché possano vivere e lavorare in
sicurezza nei rispettivi paesi d'origine. Questo obiettivo può essere
ottenuto rafforzando e perfezionando il flusso delle risorse in Africa in
modo che ci siano più opportunità di lavoro create in loco piuttosto che essere
ricercate altrove.” Questa affermazione, in palese contrasto con la linea
politica del governo italiano del tempo in materia di migrazioni, non trovava
alcuna eco sulla stampa italiana: tre anni dopo quell’auspicio è stato fatto
proprio dai governanti italiani. Altro episodio. Nell’agosto del 2015 in un
editoriale del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, si potevano leggere
queste parole: “Aiutarli a casa loro, già. Ecco la soluzione geniale. Quasi che
nessuno ci abbia mai pensato prima!” Oggi, forse, quell’editorialista sarebbe
meno irridente nei confronti di un’opzione che sembra trovare conforto anche
nelle affermazioni di Papa Francesco, pronunciate di ritorno dal viaggio in
Colombia del settembre 2017: “E c’è un’ultima cosa che voglio dire, e vale
soprattutto per l’Africa. C’è, nel nostro inconscio collettivo, un motto, un
principio: “L’Africa va sfruttata”. E un capo di governo, su questo, ha detto
una bella verità: “Quelli che fuggono dalla guerra, è un altro problema; ma per
tanti che fuggono dalla fame, facciamo investimenti lì, perché crescano”. Ma
nell’inconscio collettivo c’è che ogni volta che tanti Paesi sviluppati vanno
in Africa, è per sfruttare. Dobbiamo capovolgere questo: l’Africa è amica e va
aiutata a crescere”. Ma come sostenuto dal prof. Alberto Quadrio Curzio,
“Non bisogna però perdere tempo perché la dinamica demografica dell’Africa, pur
essendo in rallentamento, porterà quella popolazione dagli attuali 1,25
miliardi a 2,5 miliardi entro il 2050. Ovvero 5 volte la popolazione europea
attuale. Nel contempo l’attrattività dell’Europa è aumentata raggiungendo fino
a 500mila immigrati annui. Cifra non enorme in quanto pari allo 0,1% della
popolazione della Ue ma tale da creare molti problemi politico-istituzionali e
socio-economici a causa della sostanziale impreparazione europea. Eppure
l’Europa a livello aggregato (Unione più Stati membri) esprime in vari modi il
suo solidarismo al punto che nel 2016 è stato il primo contributore di aiuti
allo sviluppo con 70,5 miliardi di euro pari al 60% del totale mondiale.
L’entità è notevole ma in termini pro-capite piccola perché se tutti andassero
alla popolazione dell’Africa si tratterebbe di 56 euro annui a persona. Non
servirebbe a nulla e perciò bisogna puntare tutto sul profilo qualitativo
declinando l’«esportazione della solidarietà» su due filiere: quella economica,
che va dall’istruzione, alla infrastrutturazione, all’industrializzazione, alla
imprenditorialità; quella civile, che va dalla scuola, alla sanità, alla
salute, alla demografia, alla parità di genere, alla sicurezza. Gradualmente
questi due percorsi di solidarietà economica e civile (Sec) dovrebbero portare
infine alla democrazia nei Paesi che mai l’hanno avuta.” (7) E’ quanto
sostenuto anche dall’ex Amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo
Sviluppo (UNDP), Kemal Derviş, per il quale “ogni soluzione alla sfida della
migrazione deve concentrarsi sulla promozione dello sviluppo nei paesi di
origine dei migranti. Per l'Europa, l'attenzione dovrebbe essere
incentrata sull'Africa, la principale fonte dei flussi migratori”. Uno
sviluppo, quello dell’Africa, che richiederà il perseguimento di maggiore stabilità
politica e pace; investimenti per valorizzare il patrimonio di risorse
naturali; apporto di know-how necessari per sostenere un'accelerazione
significativa della crescita, creazione di quelle condizioni di sicurezza
presupposto per attrarre capitali privati. “Purtroppo – sottolinea Dervis- la
crescita prodotta dall’apporto di investimenti da sola non è risolutiva dei
mali africani, se non vengono previamente risolti i frequenti conflitti che
martoriano il continente e se non si perviene a forme consolidate di stabilità
politica. Di certo un buon andamento dell’economia di un Paese è condizione
necessaria perché s’instauri un clima di pace sociale e di fiducia”.
5) F. Bonaglia e L. Wegner (2014), Africa –Un continente in
movimento”, Il Mulino, Bologna
6) Paul Collier (2007), L’ultimo miliardo-Perché i paesi più poveri
diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli, Laterza, Bari
7) A. Quadrio Curzio (2017), La solidarietà economica che può
aiutare l’Africa, Il Sole 24 ore del 26 luglio 2017
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