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Introduzione
La prima volta che sentii parlare del Rwanda fu,
come per molti, nella primavera del 1994 quando giunse a conclusione nella
maniera più tragica la feroce guerra civile che, da anni, insanguinava quel
piccolo stato africano. Di quel periodo ricordo le immagini che venivano
trasmesse dai networks internazionali, in cui si alternavano i corpi, sfigurati
dai colpi di machete, abbandonati sui cigli delle strade o trascinati dalle
correnti dei fiumi, con le colonne di profughi che scappavano dagli orrori di
simile carneficina. Proprio allora arrivarono a Grosio tre di quei profughi:
Cirillo, Paolo e Roberto, tre seminaristi sfuggiti a tale scempio grazie a un
ponte aereo della Croce Rossa che da Kigali li portò in Italia. Ospitai per
qualche giorno Cirillo e conobbi gli altri due. Tutti e tre tornarono ben
presto ai propri studi in un collegio romano, sempre seguiti dalla comunità di
Grosio in questo loro percorso verso il sacerdozio. I rapporti si mantennero
nel tempo grazie anche ai frequenti soggiorni presso le famiglie grosine. Per
anni le tragiche storie che i tre avevano alle spalle rimasero ammantate di una
cortina mista di dolore, paura e pudore. Ordinati sacerdoti, don Cirillo e don
Roberto rimasero in Italia, mentre don Paolo fece coraggiosamente ritorno in
Rwanda. Altri seminaristi ruandesi vennero a studiare a Roma e conobbero
l’ospitalità grosina. Proprio aderendo all’invito di uno di questi ad assistere
alla sua ordinazione sacerdotale, che si teneva in Rwanda, scaturì l’occasione
per il primo viaggio africano. Così nell’agosto del 2003, con mia moglie
Daniela partimmo per un viaggio che forse non poteva definirsi banalmente
turistico, come passare una settimana a Malindi, ma che non era ancora
alimentato dalla fiammella dell’impegno.Sul volo Bruxelles-Kigali successe
qualcosa che nella sua banalità segnò, nel tempo, quel viaggio. Dopo oltre
un’ora di volo, quando ci trovavamo sulla verticale di Roma, il responsabile di
cabina annunciò che a causa di imprecisati problemi tecnici l’aereo doveva far
rientro alla base. Un signore, seduto davanti a noi, che non aveva prestato
attenzione all’annuncio, vedendo il trambusto creatosi tra i passeggeri si
rivolse, con accento toscano, verso di noi per chiedere ragione dell’accaduto.
Gli risposi che c’erano problemi tecnici e che dovevamo fare rientro a
Bruxelles e che comunque l’hostess aveva tranquillizzato tutti escludendo che
ci fossero rischi; aggiunsi “e noi facciamo finta di crederle”. Atterrammo
felicemente a Bruxelles accompagnati sulla pista da un imponente dispiego di
autopompe dei vigili del fuoco. Finì tutto bene e, all’indomani, ripartimmo per
Kigali. Nella fase di sbarco mi imbattei nuovamente nel signore del giorno
prima, che si presentò come appartenente a un Gruppo missionario toscano che
avrebbe passato qualche giorno nella diocesi di Byumba, la stessa nostra
destinazione, impegnato nella realizzazione di non ricordo quale progetto. Era
in perfetta tenuta da sbarco in Africa, con tanto di cappello in pelle da
cacciatore da safari. Tra me e me, lo confesso, pensai ironicamente “ecco uno
che vuol cambiare il mondo”! Nei giorni successivi non ebbi più modo di
rivederlo. Con Daniela passammo in Rwanda una decina di giorni, sempre accompagnati
da don Paolo Gahutu impegnato a spiegarci quello che passava sotto i nostri
occhi e, soprattutto, quello che non vedevamo. Dovemmo misurarci con i segni
esteriori lasciati dalla guerra civile, ma, ancor più, con le lacerazioni
interiori che la stessa aveva lasciato nelle persone con cui venivamo a
contatto. Molte, qualunque fosse la loro appartenenza tra le parti in
conflitto, piangevano la morte cruenta di qualche congiunto. Una sorta di cappa
opprimeva la comunità ruandese prigioniera dei fantasmi del suo recente
passato, tanto che la diffidenza e la paura dell’altro erano la cifra
caratterizzante i rapporti interpersonali, di cui noi stessi eravamo, di volta
in volta, testimoni e vittime. Al rientro tutto fu diverso. Nonostante le
vaccinazioni e le pastiglie assunte, un virus insidioso s’insinua subdolamente
in noi: l’interesse per quello che si è visto, la simpatia per la gente che si
è incontrata, il tarlo per l’incolmabile sproporzione tra le necessità che ti
vengono sbattute in faccia da una realtà dura e la pochezza del nostro impegno.
Allora si comincia a smanettare su internet per raccogliere materiale di ogni
tipo per conoscere meglio quella realtà con cui ci si è scontrati. E’ qui che
nelle videate che Google rilascia dopo aver digitato “Rwanda” fa la sua
comparsa il sito dell’Associazione Kwizera. Nel 2003 già vi sono illustrate le
prime realizzazioni portate a termine e i progetti per l’immediato futuro.
Parlando con Don Paolo scopro che sono “quelli di Lucca”, impegnati nella
diocesi di Byumba. Dopo averli seguiti da lontano su internet nel progredire
del loro impegno, che inanella via via realizzazioni sempre più importanti,
finalmente nel 2006 in occasione della permanenza di Don Paolo a Barga si
presenta l’occasione per fare la conoscenza di “quelli di Lucca”. Ci si trova
alla sede dell’Associazione. Sulla porta dell’ufficio, unitamente a mia moglie,
vengo accolto con un sorriso smagliante da quel signore del volo
Bruxelles-Kigali. Ci riconosciamo subito, anche se Angelo è senza cappello da
safari. Un abbraccio suggella l’incontro. Da lì, unitamente a Franco, il
presidente di Kwizera, inizia un percorso comune fatto di successivi incontri,
di confronti di idee, di approfondimenti su possibili nuovi progetti. Inizia
anche l’impegno diretto nelle missioni annuali promosse dall’Associazione. Nel
loro succedersi, inizia un percorso di conoscenza del contesto
sociale in cui si opera e parallelamente di assistere al progredire, lento ma
deciso, nella ricostruzione del Rwanda post ’94 e nella ricucitura lenta,
sofferta, a volte combattuta, del tessuto sociale lacerato da tanto sangue
versato. Oggi, alla quindicesima missione, siamo testimoni di un Rwanda
diverso. Pur tra immancabili contraddizioni, siamo in presenza di un Paese che
sta recuperando un clima comunitario più confidente e che legittimamente si
accredita, per i progressi sociali, nella sanità e nell’istruzione, ed
economici conseguiti, come esempio di sviluppo per l’intero continente. Se gli
osservatori più critici non mancano di sottolineare i ritardi ancora evidenti
sul terreno delle conquiste democratiche – ma attenzione a voler misurare
l’Africa con i nostri criteri di giudizio occidentali- ci pare di poter
cogliere, anche su questo fronte, tanti piccoli segnali che possono preludere a
possibili sviluppi positivi. Che la prossima sfida sia appunto quella di
attivare un processo che porti a una dinamica di potere pienamente democratica,
ne è cosciente lo stesso presidente ruandese, Paul Kagame, l’artefice del
successo del Rwanda, spesso accusato di essere un dittatore. In una recente
intervista al settimanale Jeune Afrique, dopo aver sottolineato i buoni
risultati conseguiti in questi venticinque anni e aver richiamato i suoi
ministri e amministratori “a fare ancora meglio”, Kagame non ha mancato di
sottolineare come democrazia e crescita debbano marciare di pari passo, perché
“non c'è democrazia se le condizioni socio-economiche non sono soddisfatte e le
disuguaglianze sono troppo grandi. E non c'è crescita sostenibile senza lo stato
di diritto”. Ecco quindi le prossime sfide che attendono il Rwanda se si vuole
dare continuità al trend di crescita economica intrapresa: ridurre le
disuguaglianze tra città e campagne e marciare decisi sulla strada che porta a
uno stato di diritto, senza dimenticare la necessità di creare una classe
politica che se ne faccia interprete.In attesa di poter assistere all’attuarsi
di questi auspici, con questo libro mi piace accompagnare il lettore dentro il
Rwanda, per aiutarlo a coglierne alcuni degli aspetti più profondi, con
particolare riguardo all’umanità che lo abita.Nella prima parte del libro,
sintesi a cura di Tony Corti del mio precedente lavoro Aiutiamoli a casa loro
Il modello Rwanda, il lettore viene accompagnato alla scoperta dell’odierno
Rwanda, così come si presenta ai milioni di visitatori che annualmente si
recano nel Paese, non solo per turismo. Un inquadramento storico, anche con
riferimento alla tragedia del 1994, fa da cornice alla narrazione del percorso,
fatto in questi ultimo quarto di secolo, che ha portato il Rwanda ad assurgere
ad esempio di sviluppo per l’Africa. Nella seconda parte sono raccolte
annotazioni e riflessioni scritte nel corso degli anni, al susseguirsi delle
diverse missioni effettuate in Rwanda, molte delle quali pubblicate come post
sul mio blog Albe rwandesi e qui riprese indicando la data di pubblicazione
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