Riportiamo qui di seguito la lettera che il Vescovo della Diocesi di Ventimiglia-Sanremo,
Mons.Antonio Suetta, ha inviato ai Vescovi per fornire alcune realistiche riflessioni, fortemente radicate all'insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa, sulla questione immigrazione.
Carissimi,
leggendo con attenzione la Vostra lettera,
ho ritenuto di dover rispondere alle Vostre riflessioni innanzitutto a partire
dall’esperienza della Chiesa di Ventimiglia San Remo, da qualche anno
fortemente coinvolta dal fenomeno dell’immigrazione, passando da qui una delle
principali rotte dei migranti prevalentemente africani e provenienti dal Sud
Italia. Spesso purtroppo siamo stati testimoni di drammi consumati alla
frontiera italo-francese, dove molti migranti giungono nel desiderio di
oltrepassare il confine presidiato dalla gendarmeria, alcuni scappando da
situazioni pericolose, altri per ricongiungersi a familiari, altri alla ricerca
di un lavoro, altri ancora per trovare fortuna e migliori condizioni di vita.
Su questo confine si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte
violenta di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel
tentativo di oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i
binari della ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte”
sui monti. A questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità
e di business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”.
Questa esperienza, unita all’ascolto dei
tanti immigrati che ho potuto incontrare nelle varie strutture che la nostra
Chiesa mette a disposizione, con il coinvolgimento di tanti volontari e la
generosità di tanti fedeli, mi consente di fare alcune riflessioni in merito
alla Vostra lettera.
Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si
trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza
e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del
Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale.
Mi sono chiesto più volte: quale può essere
il ruolo profetico della Chiesa in questa situazione? Certamente, abbiamo dato,
e continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e supporti vari (mediazione,
orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in condizioni di difficoltà e ha
bisogno del necessario per vivere. Ma può bastare questo per risolvere un
problema di proporzioni sempre più gravi?
La Chiesa guarda al bene integrale
dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di
natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una
qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel
Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e l’azione di Gesù
Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di ogni uomo, traducendo
e incarnando il suo annuncio in azioni concrete. Rispetto ai problemi
contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio
sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: “la Chiesa non ha competenze
dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia,
essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio
della dignità della persona umana”. La Chiesa, cioè, quanto al suo magistero,
agisce non in nome di una competenza tecnica, ma attraverso una seria
riflessione cristiana che illumina i temi della realtà sociale.
Di fronte a situazioni complesse di
carattere politico e sociale, spesso i fedeli, individualmente o in gruppi
particolari, possono assumere legittime e diversificate iniziative, trovando
sempre però nel Vangelo e nell’insegnamento sociale della Chiesa i principi
ispiratori delle loro azioni e delle loro scelte politiche. Le scelte e i
progetti dei singoli o dei gruppi di ispirazione cristiana possono divergere,
pur agendo da cristiani, senza per questo pretendere di agire a nome della
Chiesa o di imporre un’interpretazione esclusiva e autentica del Vangelo. La
Gaudium et spes, al n. 43, ha espresso questo principio in modo inequivoco:
“Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in
certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia altri fedeli
altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima
questione, ciò che succede abbastanza spesso legittimamente. Ché se le
soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle
parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in
tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in
favore della propria opinione l’autorità della Chiesa”.
In un contesto complesso e pluralista,
compito della Chiesa è indicare principi morali perché le comunità cristiane
possano svolgere il loro ruolo di mediatrici nella ricerca di soluzioni
concrete adeguate alle realtà locali. Lo ha mirabilmente espresso il Beato Paolo
VI al n. 4 di Octogesima adveniens: “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è
difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore
universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra
missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la
situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del
Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di
azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel
corso della storia, e particolarmente in questa era industriale”.
Tali precisazioni sono importanti per
giungere al cuore della mia riflessione, che ruota attorno alla seguente
affermazione: l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni uomo; soffre
chi è costretto a lasciare la famiglia, la casa, la terra, abbandonando
affetti, costumi, lingua, cultura e tradizioni che compongono la propria
identità; soffre la famiglia privata di un suo componente e smembrata; soffre
la terra depauperata spesso delle sue risorse migliori. A ciò si affiancano le
difficoltà dei popoli occidentali nel realizzare una difficile integrazione,
spesso preoccupati – non sempre senza ragione – di preservare la loro sicurezza
e la loro identità culturale e religiosa.
Le lacrime dei tanti giovani immigrati che
ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità della vicenda.
Comprendo in questo senso le parole di San
Giovanni Paolo II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale delle
Migrazioni del 1998: “il diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria
patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente
sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. Un principio di
giustizia sociale ribadito anche da Benedetto XVI che, nel Messaggio per la
Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2013, ha affermato il
“diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria
terra”. Interpretando l’esperienza e la coscienza di tanti profughi, spesso
vittime di sogni e illusioni, ha commentato: “Invece di un pellegrinaggio
animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un
“calvario” per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che
autori e responsabili della loro vicenda migratoria”.
Per questa ragione, oggi, mentre affermiamo
con Papa Francesco il dovere dell’accoglienza di chi bussa alla nostra porta in
condizioni di grave emergenza, occorre anche impegnarsi, forse più di quanto
non sia stato fatto, per garantire ai popoli la possibilità di “non emigrare”,
di vivere nella propria terra e di offrire là dove si è nati il proprio
contributo al miglioramento sociale. La separazione e lo smembramento delle
famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave problema per il tessuto
sociale, morale e umano dei Paesi d’origine. L’emigrazione dei giovani
rappresenta un grande depauperamento per l’Africa. Spesso, inoltre, a emigrare
sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del benessere europeo a portata di
mano. Nell’impegno per l’accoglienza, si finisce spesso per trascurare quanti
restano in quei Paesi, che spesso sono veramente i più poveri, anche
culturalmente.Fermo restando il diritto per ogni uomo di cercare fortuna fuori
dalla propria terra di origine, come anche il dovere di accoglienza per i Paesi
più ricchi del mondo, occorre tuttavia tener conto del fatto che gli uomini, le
donne e i bambini oggi coinvolti nel fenomeno delle migrazioni sono – a mio
parere – tre volte vittime.Innanzitutto sono vittime di ingiustizie, di
miserie, e spesso anche di guerra, che li costringono a partire dai loro Paesi
d’origine. Come possiamo tacere che tali situazioni, direttamente o
indirettamente, sono frutto di politiche coloniali antiche e nuove? Il primo dovere
di carità umana allora ci impone di aiutare questi popoli laddove vivono,
richiamando l’attenzione e l’impegno di tutti sulla rimozione di queste
ingiustizie e quindi anche delle cause che li spingono all’emigrazione.
Desidero richiamare in proposito l’appello
che le Chiese africane hanno rivolto in più occasioni ai loro figli più
giovani: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla
ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America” ha detto Mons. Nicolas
Djomo, Presidente della Conferenza Episcopale del Congo, all’incontro
panafricano dei giovani cattolici del 2015, invitandoli a guardarsi dagli
“inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori
morali e spirituali”, perché non si può pensare che gli uomini siano come merci
che si possono sradicare e trapiantare ovunque, se non perseguendo un’idea
nichilista che vorrebbe appiattire le culture e le identità dei popoli. “Voi
siete il tesoro dell’Africa; – ha aggiunto Djomo – la Chiesa conta su di voi, il
vostro continente ha bisogno di voi”.
Ancora più recentemente, dal Senegal alla
Nigeria, i Vescovi hanno avuto reazioni indignate di fronte ad alcuni filmati
che mostrano come vengono trattati alcuni migranti prima di essere venduti in
Libia come schiavi, per poi finire a fare i profughi in mare aperto. “Non
abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di emigrazione illegale
quando sappiamo benissimo come funzionano, tutto questo deve finire” dice dal
Senegal Monsignor Benjamin Ndiaye, Arcivescovo di Dakar, che argomenta per
assurdo: “meglio restare poveri nel proprio Paese piuttosto che finire
torturati nel tentare l’avventura dell’emigrazione”. A lui hanno fatto eco più
recentemente in Nigeria Mons. Joseph Bagobiri della Diocesi di Kafachan e Mons.
Jilius Adelakan, Vescovo di Oyo. I Pastori riconoscono che la Nigeria è un
Paese ricco di tante risorse, ma le associazioni malavitose, che hanno contatti
anche nei vari Paesi europei, e anche in Italia, incoraggiano di fatto la
tratta di esseri umani, alimentando illusioni e false speranze, per un loro
tornaconto.
In secondo luogo, oltre che vittime di
ingiustizie laddove vivono, i migranti sono spesso vittime di rifiuto e di
sfruttamento nei Paesi a cui approdano. Sono anche vittime di condizioni strutturali
che, al di là della buona volontà di chi accoglie, non consentono sempre di
dare loro quella fortuna che cercano. Come possiamo dimenticare le difficoltà
di lavoro che incontrano molti dei nostri giovani, essi pure costretti ad
andare a cercare altrove la prospettiva di un futuro?
In questo ambito
si deve considerare il difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un
grave problema di integrazione con la nostra cultura occidentale e cristiana.
Faccio riferimento a dati obiettivi, fonte spesso di problemi non indifferenti,
posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse del diritto di
famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e politica. Il tema
è stato ben argomentato a suo tempo dal compianto Card. Giacomo Biffi e molti
sono i richiami in tal senso provenienti in questi anni dai Vescovi che in
Medio Oriente vivono quotidianamente queste difficoltà, come ad esempio, il
Vescovo egiziano copto di Alessandria, Mons. Anba Ermia. Queste difficoltà sono
ben note anche in alcuni Paesi europei, come la Francia, dove l’integrazione è
ancora di là da venire, come ci dimostrano le tristi cronache di questi anni.
Tuttavia mi preme precisare, come anche Papa Francesco ha affermato più volte,
che i fatti gravi di tipo sovversivo e terroristico non sono fondamentalmente
espressione di una guerra di religione, essendo più variegate e complesse le
motivazioni. Grandi passi sono stati fatti sul piano del dialogo
interreligioso. Per tornare al nostro tema, le difficoltà di integrazione le
vediamo anche nelle realtà più piccole dei nostri centri, dove assistiamo alla
creazione di veri e propri “quartieri islamici”, che, con gravi tensioni
tentano di impiantare le loro regole e le loro tradizioni.
Anche Papa Francesco ha sempre riconosciuto
che la politica dell’accoglienza deve coniugarsi con la difficile opera
dell’integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio” e
proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza va fatta compatibilmente
con la possibilità di integrare. L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato
che gli immigrati spesso restano ai margini delle nostre società, in veri e
propri ghetti, in cui parlano la loro lingua e introducono i loro costumi, come
in comunità parallele, talvolta in contesti di degrado. Per non tacere del
grave fenomeno degli immigrati che finiscono in mano alla malavita o agli
sfruttatori del piacere sessuale.
In terzo luogo, i migranti, già vittime di
ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi
difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le
condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni
occidentali di “piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei
poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e
nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha ricordato Mons. A.
Schneider. Senza ossessioni di complotti, ma anche senza irresponsabili
ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti progetti e tentativi
volti annullare le identità dei popoli, perché ciascun uomo sia più solo e
debole, sganciato dai riferimenti culturali di una comunità in cui possa
identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare dalla produzione legislativa
europea sempre più lontana e avversa alle radici della nostra civiltà. Se da
una parte possiamo concordare che oggi non vi sia una vera e propria guerra tra
le religioni, dobbiamo però riconoscere che è in atto una “guerra” contro le
religioni, ogni religione, e contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo.
Spesso, giunti in Europa, i migranti sentono anche il peso e la fatica di una
visione di vita e di uno stile non appartenenti alla loro storia e identità,
siano essi cristiani, islamici o di altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la responsabilità
di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità
dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e
baluardo di autentica promozione umana. Personalmente, sono convinto che il
futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare verso una sostituzione
etnica, involontaria o meno che sia.
Tutte queste ragioni, che in breve ho
cercato di enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel Catechismo della
Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la prudenza e la
lungimiranza della Chiesa: “Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere,
nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle
risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese
di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto
naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le
autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono
subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni
giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti
del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza
il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle
sue leggi, a contribuire ai suoi oneri.”
A questi principi di buon senso e sapienza
cristiana suggerisco di conformare l’agire sociale, illuminati dal Magistero
della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo
messaggio con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere posizioni
di privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla complessità
del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre tener conto
affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù
Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli uomini di
buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità intera.
+ Antonio Suetta
Vescovo di
Ventimiglia – San Remo
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