Sui problemi sollevati dal fenomeno migratorio riprendiamo dal sito In Terris questa interessante intervista, a cura di Federico Cenci, alla nota africanista prof.sa Anna Bono.
Che i fenomeni
migratori di questi anni dall’Africa rappresentino un dramma è ormai
comprovato. Masse di persone si avventurano in viaggi disperati, affrontano
lunghi e impervi percorsi a piedi, si riversano su barconi alquanto precari e,
quando non finiscono negli ostili centri libici o inghiottiti dalle acque del
Mediterraneo, giungono a destinazione senza trovare quell’Eldorado che avevano
sognato. Ma se queste ondate migratorie svantaggiano i Paesi di emigrazione,
quelli di immigrazione e soprattutto i migranti, bisognerebbe forse intervenire
per porre un argine. Ma come? In Terris ne ha parlato con la prof.ssa Anna
Bono, africanista ed ex ricercatore in Storia delle Istituzioni dell’Africa
all’Università di Torino, autrice del saggio Migranti!? Migranti!? Migranti!?
(ed. Segno, 2017).
Secondo lei, per affrontare la questione, è fondamentale
anzitutto sgombrare il campo dell’analisi da alcuni falsi miti che aleggiano
ancora intorno a questo fenomeno.Prof.ssa Bono,
anzitutto chi sono gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa?
“Per lo più, oltre
l’80 per cento, sono giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che
viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da
una serie di Paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un
picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e
occidentale, da Paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana…”.
Mediamente qual è
la condizione sociale di queste persone?
“Non è facile
dirlo perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto,
comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza
non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti
da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il Paese. Dunque mi
sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio:
persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi
organizza i viaggi”.
E allora come
matura l’idea di emigrare, se non si è in condizioni di povertà e non si vive
in zone di conflitto?
“Per rispondere
ritengo importante citare il ministro dei Senegalesi all’Estero, che un paio
d’anni fa ha detto in un’intervista: ‘Qui non parte gente che non ha nulla,
parte gente che vuole di più’. L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in
Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza
prodotta ci sono dei sacrifici”.
Come si alimenta
questa illusione?
“Ad alimentarla
sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la
gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo
fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno
è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della
droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel
2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5milioni di
persone, delle quali quasi 400mila verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5
a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona
l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le
varie tariffe”.
Esiste però
un’opera di dissuasione da parte di chi è già arrivato in Europa e si è reso
conto che il “Bengodi” era un’illusione?
“Al contrario, chi
arriva in Europa per lo più non fa altro che alimentare verso i propri parenti
e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena
spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive,
anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che
spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi
tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di
protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito”.
D’accordo, ma le
notizie delle traversate nel deserto, dei campi di detenzione libici, delle
tragedie nel Mediterraneo non dovrebbero rappresentare un deterrente nei
confronti di chi vuole partire?
“Il punto è che
queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi
d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto
limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli,
così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento
intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal
proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che
stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa”.
Prego…
“Alcuni governi,
così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per
spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene
nel lungo periodo ad emigrare in Paesi dove non c’è occupazione né possibilità
concreta di integrazione economica e sociale”.
Quali governi
stanno svolgendo questo lavoro?
“Quello del
Senegal, del Niger, dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una
forte propaganda per dimostrare che un Paese dal quale emigrano i suoi
cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra
Leone a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose,
sia quelle cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che
incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare per migliorare il proprio
Paese”.
E i rifugiati?
Qual è il loro numero esatto?
“L’ultimo rapporto
dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di
oltre 60milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero
di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa
20milioni. Di questi soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede
asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940
e nel 2017 6.578”.
Perché sono così
pochi? L’idea diffusa è che i conflitti siano la principale causa delle
emigrazioni…
“Perché la maggior
parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine, del resto
la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo
nel primo Paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo
motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di
rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima
possibile”.
Quanto incide
sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? Penso ad esempio al land
grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di Paesi stranieri o
industrie…
“Sicuramente sono
fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto
nei governi africani, i quali - per restare al tema del land grabbing -
preferiscono vendere le terre ad industrie o a Paesi che hanno fame di terre
coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro
piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti.
L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al
petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è
capire dove vanno a finire i soldi”.
Dove?
“Le do un dato:
nel 2014 su 77miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale
del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in
qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale
del Paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del
Continente, importa il greggio già raffinato dall’estero. Tenga conto che
l’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima
fila ci sono i Paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che
queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche elite”.
Al recente
Consiglio europeo gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al
Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500milioni. È un modo per “aiutarli a casa
loro” o per alimentare la corruzione di cui ha parlato?
“Questi 500milioni
sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno
vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed
Europa. Infatti quando sento invocare un ‘piano Marshall’ per l’Africa resto
basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i
destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Le faccio un esempio: in
Somalia, che è uno dei Paesi maggiormente assistiti, la Banca mondiale qualche
anno fa ha dimostrato che ogni 10dollari che vengono elargiti al governo, 7
spariscono nel nulla”.
Lei ha citato la
Somalia, dove forte è la presenza del radicalismo islamico: è possibile che
questi soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi
jihadisti?
“Eh, chi lo sa…
Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto
potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di
droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della
Somalia ottengono circa il 40 per cento dei proventi dalla vendita di zanne di
elefante. Consideri che in Kenya c’è un detto: ‘Oggi è stato ucciso un
elefante, domani sarà ucciso un uomo’, proprio per sottolineare la correlazione
tra bracconaggio e terrorismo”.
Una ricerca delle
Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un'ulteriore crescita demografica
dell'Africa e un declino dell'Occidente. L'immigrazione di massa non sarà
sempre più un fenomeno ineluttabile?
"Anzitutto si
tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent'anni
la situazione rimarrà la stessa di oggi in termini demografici. Delle buone
politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza
demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la
popolazione africana non aumenterà come l'Onu prevede (già si registra una
piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e
poi che l'Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di
convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di
migranti".
Parlando di
Italia, come valuta le recenti polemiche tra il governo italiano e le ong?
“A mio avviso il
modus operandi di molte ong è molto discutibile, perché entrano in contatto
diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali
libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro
Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con
il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere
provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma
l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi
internazionali”.
Non c’è il
rischio, per mutuare il motto di una recente iniziativa, che chiudendo i porti
“non si resti umani”?
“L’Europa in
generale, ma nello specifico l’Italia sono molto lontane dalla fase più
prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5milioni di italiani
in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero,
l’Italia è 20esima tra i Paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo
giusto impedire a delle persone di raggiungere un Paese che può assisterli nel
breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi
arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita:
il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in
condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le
fila della criminalità organizzata”.
Chiudere i porti
dunque può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini?
“Esattamente. È
importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono
tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso
l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano
che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della
propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi
progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della
speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è
il messaggio più netto che possa giungere”.
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