Il Rwanda, dal prossimo gennaio uno dei componenti elettivi del Consiglio di sicurezza dell'ONU, è un importante partner onusiano nelle operazioni di pace in diverse zone del mondo. Tra i diversi paesi che forniscono proprio personale militare o di polizia a queste operazioni promosse dall'ONU, il Rwanda, con 4.505 uomini, quasi il 13 per cento delle proprie forze armate, si colloca al settimo posto al mondo dopo quattro paesi asiatici (Pakistan con 9.149 uomini, Bangladesh con 9.068, India con 7.889 e Nepal con 4.561 ) e due africani (Nigeria con 5.596 uomini ed Etiopia con 5.882). Attualmente il personale rwandese è impegnato nel Darfour e Sud Sudan, in Somalia, nella Repubblica Centrafricana e, con un contingente di polizia, ad Haiti. Che cosa spinge un piccolo paese come il Rwanda ad affrontare un simile impegno - si pensi che l'Italia fornisce 1.172 uomini alle operazioni di peacekeeping dell'ONU anche se ne impegna altri 5.500 in altre operazioni dotto l'egida della Nato o dell'UE - che ha significativi impatti sulle asfittiche casse governative, visto che gli oneri di tali campagne gravano anche sul singolo paese partecipante alla missione? Naturalmente partecipare alle operazioni di peacekeeping non è tanto un'operazione umanitaria di solidarietà internazionale, bensì occasione per acquisire visibilità e titoli di credito a livello internazionale, spendibili alla prima favorevole occasione su più di un tavolo e nelle forme più varie. Si acquisiscono meriti presso la superpotenza USA che riesce a presidiare per interposta persona i focolai di crisi sul continente africano dove, dopo quanto successo nel 1993 in Somalia ai suoi piloti, sembra non voler più impegnarsi direttamente. Ma è sui tavoli dell'ONU che i crediti possono essere meglio valorizzati. Come sta succedendo proprio in questi giorni con l'Uganda che ha minacciato l'ONU di ritirare i propri contingenti, per la verità estremamente contenuti rispetto a quelli rwandesi, se non verranno ritirati i rapporti onusiani che accusano l'Uganda di essere coivolta nel sostegno al gruppo M23 nel Nord Kivu. Niente più che la riedizioni di quanto fatto dal Rwanda nel 2010, quando l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo rese pubblico il "DRC: Mapping human rights violations 1993-2003" relativo alle più gravi violazioni dei diritti dell'uomo e del diritto umanitario internazionale commesse tra il marzo 1993 e il giugno 2003 nel territorio della Repubblica democratica del Congo. Un dossier di 574 pagine, redatto in due anni di lavoro, dal luglio 2008 ad agosto 2010, da un'equipe di specialisti. Di fronte all'accusa alle forze armate rwandesi di aver commesso crimini contro l'umanità configurabili secondo gli esperti onusiani come potenzialmente genocididari, Kigali reagì sdegnata per l'accusa e non esitò a fare ricorso alla minaccia di ritirare tutte le proprie forze di peacekipping dislocate nei vari teatri di crisi se il rapporto non fosse stato adeguatamente purgato dai riferimenti più imbarazzanti.Sul rapporto fu messa la sordina e il tutto scivolò nell'oblio.
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