Illustre professore,
quale presidente del Gruppo di
lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa pensiamo
segua con preoccupazione l'evolversi della situazione della crisi che
attanaglia da anni la zona del Kivu. Sul terreno continuano le violenze, mentre
a livello diplomatico si è ben lontani da una possibile soluzione che possa
mettere d'accordo i diversi protagonisti, a partire dai paesi confinanti,
Rwanda e Uganda in primis, ben decisi a non mollare la presa sul ricco forziere
congolese, la vera posta in gioco di questo macabro gioco diplomatico. Finora
non sono state messe sul tavolo soluzioni plausibili. L'ipotesi avanzata in
passato da esponenti dell'amministrazione americana di arrivare a una vera e
propria spartizione del Kivu tra i vari paesi confinanti, obiettivo non troppo
nascosto del Rwanda e dell'Uganda, se da una parte appagherebbe gli appetiti
degli stessi, dall'altra creerebbe un precedente pericoloso che innescherebbe
una corsa alla revisione dei confini che incendierebbe l'intero continente
africano. Perchè invece non percorrere la strada di un accordo internazionale
che consenta agli stati confinanti di ottenere, nelle forme e nei modi da
stabilire, dei diritti contingentati di sfruttamento del ricco sottosuolo
congolese, nè più nè meno di quanto fa la Cina in molti stati africani, a
fronte di royalty riconosciute alla RDC, che manterrebbe l'autorità sul
territorio salvo che non si voglia arrivare a una qualche forma di protettorato
internazionale del Kivu come sperimentato in passato in altre zone del mondo.
Si otterrebbe in un solo colpo più di un vantaggio. Cesserebbe il proliferare
delle milizie locali che, al di là di tutto, hanno come scopo principale quello
di mettere sotto il proprio controllo e sfruttare qualche miniera. La Repubblica
democratica del Congo, palesemente incapace di esercitare la propria autorità
statuale nel lontano Kivu, avrebbe almeno il vantaggio di beneficiare di parte
delle proprie ricchezze di cui ora solo una minima parte arriva a Kinshasa. Gli
stati vicini realizzerebbero il loro obiettivo, facendo così cadere ogni
interesse a interferire negli affari interni della RDC. Nel caso del Rwanda,
una soluzione come quella auspicata, non farebbe altro che portare finalmente
allo scoperto e regolarizzare il grande flusso di materie prime, attualmente
illegalmente contrabbandate a esclusivo beneficio dei maggiorenti dell'attuale
classe politica detentrice del potere, mettendo in circolo nell'economia
nazionale i cospicui ricavi che ne deriverebbero a beneficio dell'intera
società rwandese.Cesserebbero in tal modo tutte quelle rivendicazioni, basate
sul refrain dei confini imposti in epoca coloniale che hanno intaccato il
territorio del Grande Rwanda, piuttosto che la tutela di minoranze tutsi
rwandesi residente in territorio congolese, che periodicamente Kigali avanza
per giustificare il proprio invadente interessamento per ciò che succede nel
Kivu. Molto probabilmente in presenza di una bonifica dell'intero Kivu si
risolverebbe anche il problema della presenza delle milizie della
FDLR.Risultato non secondario, si porrebbe finalmente fine alla più onerosa e
consistente missione ONU nel mondo (Monusco) che in tutti questi anni non ha
certo fatto del marketing per l'ONU stessa.
L'altro ieri a conclusione
della 67 esima assemblea dell'Onu, il segretario Ban Ki-moon incontrando i due
principali protagonisti di questo affaire, il presidente congolese Kabila e
quello rwandese Kagame, ha auspicato, facendosi interprete della preoccupazione
di tutti i partecipanti all'assemblea, che si arrivi a una soluzione attraverso
un accordo a partire proprio dai suoi due interlocutori, impegnandosi anche a
mettere in campo un proprio inviato speciale che favorisca la soluzione di un
problema che è già costato qualche milione di vittime. Nessuno tra i diversi
mediatori, ultima in ordine di tempo Hillary Clinton, che si sono autocandidati
a derimere il nodo del Kivu ha potuto mettere in campo, almeno fino ad oggi,
quella terzietà dal punto di vista politico ed economico che è richiesta in un
simile scacchiere, dove gli interessi geopolitici e quelli delle multinazionali
sono di tutta evidenza. Allora ci si può chiedere se la soluzione all'annoso
problema del Kivu non possa arrivare da una mediazione condotta da un politico
riconosciuto a livello mondiale al quale, in quanto italiano, non fanno ombra
interessi nè tipo geopolitico nè di tipo economico, ma che semmai è portatore
anche delle conoscenze di quei meccanismi economici che si dovrebbero mettere
in campo per arrivare alla soluzione del problema nel modo prospettato.
Ci
pensi professore.
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