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martedì 25 ottobre 2011

Un nuovo romanzo sul Rwanda

I Cento giorni (Einaudi, pagg. 216, euro 15, traduzione di Daniela Idra) è il romanzo d’esordio che il drammaturgo elvetico Lukas Bärfuss ha ambientato in Rwanda nel periodo che va dall'aprile al luglio del 1994, quando il Paese, che veniva considerato «la Svizzera africana», si trasformò nel teatro di «uno dei crimini del secolo».Il libro viene così presentato dall'editore: David Hohl, uno svizzero tranquillo, nel 1990 parte per il Rwanda, per aggregarsi a un importante progetto di cooperazione. Nel panorama africano, il paese è una positiva anomalia con allevamenti di bestiame, con programmi di riforestazione, con una situazione politica tutto sommato stabile. La collaborazione funziona, i risultati non mancano. Ingenuo e idealista, Hohl stenta a comprendere una realtà radicalmente altra, un universo enigmatico, talvolta minaccioso e in ogni caso non valutabile in base ai parametri occidentali. Nel rapporto con l'affascinante Agathe, una donna dalla sensualità dirompente, intuisce forse di trovarsi di fronte a questo baratro di incomprensione. Ma non è sufficiente: nonostante tutte le avvisaglie, nei quattro anni che trascorre nel paese non si rende conto della tragedia che si sta preparando. E così scivola, quasi impercettibilmente, in un incubo: quando, nella primavera del 1994, ha inizio il massacro, cerca di tenere i contatti con la donna - che con gli anni ha maturato una sua coscienza politica e muore di colera in un campo profughi -,non parte con gli altri occidentali, per cento giorni rimane recluso nella sua abitazione e diventa così testimone e in qualche modo complice del genocidio che costò la vita a quasi un milione di persone.
«Negli anni seguenti ho cercato di tenere lontano dalla mia vita ogni turbamento e solo a volte, quando ascolto la tanta gente arguta e leggo i tanti libri intelligenti che da allora sono stati scritti su quel periodo, allora cerco il mio nome nell'indice analitico, e il nome del piccolo Paul, sotto Direzione della cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario, e quando eccezionalmente li trovo, al massimo c'è scritto che eravamo lì e forse anche che abbiamo investito in quel paese più soldi di tutte le altre nazioni. La nostra fortuna è sempre stata che in ogni crimine in cui era coinvolto uno svizzero ci fosse sempre di mezzo qualche farabutto più grosso, che attirava su di sé l'attenzione e dietro il quale potevamo nasconderci. No, non appartenevamo a quelli che commettevano bagni di sangue. Erano altri a farlo. Noi ci sguazzavamo dentro. E sapevamo perfettamente come bisognava muoversi per restare a galla e non affondare in quella salsa rossa».

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