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venerdì 5 maggio 2017

Su Civiltà Cattolica un gesuita rwandese fa memoria ( un po' di parte) del genocidio

Nell’ultimo numero de La Civiltà Cattolica appare un articolo del gesuita rwandese Marcel Uwineza dal titolo Fare memoria del genocidio in Rwanda-Una testimonianza, di cui qui di seguito riportiamo l’abstract reso disponibile dalla stessa rivista dei gesuiti.
“«Ogni ferita lascia una cicatrice, e ogni cicatrice parla di una storia: ci ricorda che siamo vivi». Mai come oggi è necessaria la saggezza di questo detto ruandese, soprattutto per quanto riguarda la tragica storia del Rwanda, che ha portato al genocidio perpetrato contro i tutsi e alle cicatrici che ha prodotto in tutto il Paese.
 Il genocidio del 1994 si radicava nelle divisioni «etniche» tra gli hutu, i tutsi e i twa, che si erano intensificate nell’epoca coloniale (1890-1962) fino a sfociare in una conclusione atroce. Il genocidio è stato infatti il culmine di un’esclusione etnica di lunga data. Durante il genocidio — che si è perpetrato nell’arco di circa tre mesi, a partire dall’aprile di quell’anno — sono stati uccisi quasi un milione di tutsi e di hutu moderati, ossia coloro che si sono opposti alla pulizia etnica. Alla fine il Paese era in rovina: cadaveri dappertutto, innumerevoli le vedove, gli orfani e i rifugiati. Ogni ruandese è rimasto ferito, quale che fosse la sua appartenenza «etnica», sebbene le ferite siano state di diversa gravità. I ruandesi non devono lasciarsi sopraffare dalle memorie non riconciliate, nemmeno in teologia, ma piuttosto devono aver fede in esse e con esse parlare di Dio. Ricordare significa esserci, ma anche agire e continuare ad agire per costruire una società in cui queste operazioni mostruose siano impensabili. La memoria svolge infatti varie funzioni importanti. In primo luogo, ci spinge ad andare avanti e a stabilire forti legami tra ricordi e verità, perché le memorie selettive o false possono diventare in futuro ideologie oppressive. In secondo luogo, l’appropriazione critica della memoria consente all’umanità di non perdere ciò a cui la maggior parte delle persone tiene di più in assoluto: la dignità della persona umana sostenuta dall’amore del prossimo, perfino quando dimostra di essere un nemico. In terzo luogo, la memoria rafforza la fede della gente nell’andare avanti nonostante sofferenze insensate. In quarto luogo, la memoria ci aiuta a tenere presente il fatto che tutti cadiamo e abbiamo bisogno di perdono. In quinto luogo, rifiutare i ricordi di ciò che abbiamo fatto o di ciò che altri hanno fatto a noi equivale in pratica a rifiutare la nostra vera identità. Infine, la memoria della sofferenza conduce alla solidarietà. Ci sono dunque tanti elementi per poter affermare che la memoria è di importanza decisiva per il futuro del Rwanda: si tratta anche di un imperativo teologico. Cosa sta facendo la Chiesa ruandese in tale direzione?”
Leggendo l’intero articolo, ci si imbatte in una testimonianza che ripercorre l’angosciante esperienza personale del pastore che nel genocidio ha perso parte dei suoi familiari e che arriva  a perdonare, in un incontro drammaticamente travagliato, uno degli assassini dei suoi fratelli e di sua sorella. Ricorda tutto l’orrore di quei cento giorni che hanno lasciato tanti cadaveri sulle strade rwandesi e ora “ossa inaridite” che ancora oggi si incontrano nei vari memoriali del genocidio di cui è costellato il paese. Eppure nella drammaticità della testimonianza di quella che può essere definita una riconciliazione personale,  si fatica a cogliere nell'articolo una convinta e partecipata apertura a una riconciliazione più ampia, che coinvolga la  comunità rwandese nella sua interezza, vincitori e vinti, vittime e carnefici, governanti e governati.
Non una parola viene dedicata, nello scritto di padre Marcel, ai tanti altri morti di cui non restano neppure quelle "ossa inaridite", perché i loro corpi sono stati inceneriti o non si trovano, come quello di padre Joaquim Vallmajo.  Non una parola per i tanti confratelli che nei tre  anni di guerra civile, di cui i 100 giorni del 1994 sono stati la macabra conclusione, hanno perso la vita per mano degli altri combattenti. La stessa breve e sintetica ricostruzione storica che appare all’inizio dell’articolo fornisce a chi non conosce la storia rwandese un quadro incompleto, forse fuorviante, della stessa; per esempio quando si parla del genocidio del 1994 a danno dei tutsi  come del culmine “di un’esclusione etnica di lunga data”, non facendo alcuna menzione del periodo della monarchia tutsi e della sua gestione del potere protrattosi per l’intero periodo coloniale, in cui forse  vanno storicamente ricercate le origini dei futuri drammi che hanno sconvolto il paese.Tacere poi che il genocidio è stato preceduto da una guerra civile esplosa nell’ottobre del 1990 e protrattasi fino appunto al 1994, oltre a non fornire un corretto inquadramento storico, serve forse a non dover parlare delle atrocità che, storicamente,  vengono  compiute in una qualsiasi guerra civile dalle parti in campo, comprese anche quelle che escono vincitrici dal confronto e poi scrivono la storia. “ La sfida della convivenza”  e della riconciliazione non passa solo attraverso la richiesta di perdono da parte della Chiesa rwandese piuttosto che del Papa, come sembra ipotizzare padre  Marcel Uwineza  quando ne fa “momenti importanti per la guarigione della memoria”, ma anche nella riscoperta da parte di tutti e non solo di una parte, come sembra sempre supporre l'articolista, della “verità come dovere di giustizia”  perchè “ una  memoria incompleta  o falsata non soltanto lascia il conflitto aperto , ma lo rende più acuto”. Allora per chiudere una stagione di sangue, quale è stata quella della guerra civile e del genocidio, per aprirsi a una riconciliazione vera tra tutti i rwandesi,  “ la capacità di riconoscere e chiedere perdono per gli errori in circostanze del genere" dovrebbe diventare un impegno di tutti, indistintamente, i protagonisti della recente storia rwandese e non solo della Chiesa. 

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