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sabato 16 novembre 2013

Passa da un accordo sui minerali la possibile soluzione della crisi del Kivu


Mentre la crisi del Kivu sta evolvendo in un modo imprevisto, almeno  fino a poco tempo fa, con la resa dei ribelli dell’M23 di fronte al deciso intervento dell’esercito congolese, spalleggiato dalle truppe dell’ONU, senza dimenticare l'appoggio politico del Sud Africa e della Tanzania, e mentre molti di chiedono chi e, soprattutto, cosa abbia convinto il presidente rwandese a non intervenire militarmente, a Kigali più prosaicamente si sta discutendo di minerali, cioè dell’inconfessata materia del contendere che muove tutti i protagonisti interessati allo scacchiere congolese. Si direbbe che ci si stia preparando al dopo, quando i campi minerari del Kivu potrebbero essere oggetto di una spartizione di tipo balcanico, piuttosto che di una meno traumatica suddivisione dei diritti di sfruttamento con il coinvolgimento dei paesi confinanti con il Congo, cioè Uganda e Rwanda. Proprio in questi giorni è, infatti,  in corso a Kigali la sesta edizione del Responsible Mineral Supply Chains summit, in cui oltre trecento operatori del settore, provenienti da tutto il mondo, si sono interrogati sul modo migliore per arrivare a una regolamentazione del delicato settore, affrontando anche apertamente il problema del commercio illegale di minerali, con particolare riferimento a quelli provenienti dal vicino Congo, di cui spesso e da più parti il Rwanda è stato additato come uno dei protagonisti. Durante il Summit, il Rwanda, che fa gli onori di casa, ha colto l’occasione per ribattere alle accuse e per dimostrare il proprio impegno a contrastare il contrabbando in essere attraverso le frontiere congolesi, ma anche per riaffermare in maniera decisa il proprio buon diritto a potersi accreditare, oltre che come esportatore dei minerali estratti dal proprio sottosuolo, anche come trader dei minerali congolesi. Attualmente il settore minerario rwandese  impiega più di 35.000 persone e ha prodotto lo scorso anno 8.000 tonnellate di minerali - cassiterite, wolframite e il tantalio, minerale che concorre a costituire il famoso coltan (vedi post) - che hanno consentito ricavi per 136,6 milioni di dollari, dati che, secondo il governo, dovrebbero  aumentare fino  a 18.000 tonnellate e 400 milioni di dollari di ricavi entro il 2017.Per accreditarsi come operatore affidabile, il Rwanda non ha lesinato gli sforzi.E’ stato, infatti,  il primo paese della regione ad attuare la cosiddetta etichettatura dei minerali per consentirne la tracciabilità, altrimenti noto come ITSCi, così come previsto dalla normativa americana, Dodd Frank Act, emanata da Barack Obama, che proibisce l'acquisto da parte delle aziende americane di minerali non rintracciabili, in particolare, di quelli provenienti dalla Repubblica democratica del Congo (RDC). Dopo che, proprio in questo mese, il Rwanda è diventato anche il primo paese della regione a rilasciare un certificato per l'esportazione di minerali, una mossa che dovrebbe consentire la tracciabilità dei minerali per contrastare il commercio illegale di minerali provenienti da zone di conflitti,  si trova ad avere tutte le carte in regola per diventare protagonista nel trading di minerali. Soprattutto, una volta scrollatasi di dosso l’ingombrante etichetta di grande saccheggiatore delle ricchezze del grande vicino ( non per niente una delle vie di Kigali, dove risiedono molti dei nuovi ricchi che hanno fatto fortuna con i traffici transfrontalieri, viene comunemente chiamata Congo street), il Rwanda potrà aspirare di diventare, a pieno titolo, uno dei protagonisti nel commercio dei minerali congolesi, al pari di tutti gli altri operatori internazionali che da anni fanno affari, più o meno lecitamente, nella zona. Forse è questa la cambiale  che qualcuno ha firmato a Kagame per moderarne i propositi interventisti nella crisi del Kivu. Potrebbe essere una possibile e, forse, auspicabile soluzione dell’annosa crisi congolese.

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