Mentre la crisi del Kivu sta evolvendo in un modo imprevisto,
almeno fino a poco tempo fa, con la
resa dei ribelli dell’M23 di fronte al deciso intervento dell’esercito
congolese, spalleggiato dalle truppe dell’ONU, senza dimenticare l'appoggio politico del Sud Africa e della Tanzania, e mentre molti di chiedono chi
e, soprattutto, cosa abbia convinto il presidente rwandese a non intervenire
militarmente, a Kigali più prosaicamente si sta discutendo di minerali, cioè
dell’inconfessata materia del contendere che muove tutti i protagonisti
interessati allo scacchiere congolese. Si direbbe che ci si stia preparando al
dopo, quando i campi minerari del Kivu potrebbero essere oggetto di una
spartizione di tipo balcanico, piuttosto che di una meno traumatica
suddivisione dei diritti di sfruttamento con il coinvolgimento dei paesi
confinanti con il Congo, cioè Uganda e Rwanda. Proprio in questi giorni è,
infatti, in corso a Kigali la sesta
edizione del Responsible Mineral Supply Chains
summit, in cui oltre trecento operatori del settore, provenienti da
tutto il mondo, si sono interrogati sul modo migliore per arrivare a una
regolamentazione del delicato settore, affrontando anche apertamente il
problema del commercio illegale di minerali, con particolare riferimento a
quelli provenienti dal vicino Congo, di cui spesso e da più parti il Rwanda è
stato additato come uno dei protagonisti. Durante il Summit, il Rwanda, che fa
gli onori di casa, ha colto l’occasione per ribattere alle accuse e per
dimostrare il proprio impegno a contrastare il contrabbando in essere attraverso
le frontiere congolesi, ma anche per riaffermare in maniera decisa il proprio
buon diritto a potersi accreditare, oltre che come esportatore dei minerali
estratti dal proprio sottosuolo, anche come trader dei minerali congolesi. Attualmente
il settore minerario rwandese impiega
più di 35.000 persone e ha prodotto lo scorso anno 8.000 tonnellate di minerali
- cassiterite, wolframite e il tantalio, minerale che concorre a costituire
il famoso coltan (vedi post) - che hanno consentito ricavi per 136,6
milioni di dollari, dati che, secondo il governo, dovrebbero aumentare fino a 18.000 tonnellate e 400 milioni di dollari di ricavi entro il
2017.Per
accreditarsi come operatore affidabile, il Rwanda non ha lesinato gli sforzi.E’
stato, infatti, il primo paese della
regione ad attuare la cosiddetta etichettatura dei minerali per consentirne la
tracciabilità, altrimenti noto come ITSCi, così come previsto dalla normativa
americana, Dodd Frank Act, emanata da Barack Obama, che proibisce l'acquisto da
parte delle aziende americane di minerali non rintracciabili, in particolare,
di quelli provenienti dalla Repubblica democratica del Congo (RDC). Dopo che,
proprio in questo mese, il Rwanda è diventato anche il primo paese della
regione a rilasciare un certificato per l'esportazione di minerali, una mossa
che dovrebbe consentire la tracciabilità dei minerali per contrastare il
commercio illegale di minerali provenienti da zone di conflitti, si trova ad avere tutte le carte in regola
per diventare protagonista nel trading di minerali. Soprattutto, una volta
scrollatasi di dosso l’ingombrante etichetta di grande saccheggiatore delle
ricchezze del grande vicino ( non per niente una delle vie di Kigali, dove
risiedono molti dei nuovi ricchi che hanno fatto fortuna con i traffici
transfrontalieri, viene comunemente chiamata Congo street), il Rwanda potrà
aspirare di diventare, a pieno titolo, uno dei protagonisti nel commercio dei
minerali congolesi, al pari di tutti gli altri operatori internazionali che da
anni fanno affari, più o meno lecitamente, nella zona. Forse è questa la
cambiale che qualcuno ha firmato a
Kagame per moderarne i propositi interventisti nella crisi del Kivu. Potrebbe
essere una possibile e, forse, auspicabile soluzione dell’annosa crisi
congolese.
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