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lunedì 8 novembre 2010

I paesi africani e l'insidioso fascino del modello cinese

L'espansione della presenza della  Cina sul continente africano a colpi di accordi economici con i governi di diversi paesi, nasconde più di un rischio. Il primo, più volte sottolineato da diversi osservatori, è quello di uno sfruttamento delle ricchezze naturali dei diversi paesi con modalità non molto diverse da quello delle potenze coloniali del passato, anche se all'apparenza a fronte di contropartite importanti quali la realizzazione di  strade, ospedali, scuole, fabbriche e la sottoscrizioni di accordi di cooperazione nei più disparati campi: industriale, militare o della pubblica istruzione.Secondo questo modello, diverse sono le intese sottoscritte anche dal governo del Rwanda con quello della Cina, nei più svariati campi.
Sul ruolo della Cina in Africa e, soprattutto, per conoscerne meglio i risvolti poco conosciuti, suggeriamo la lettura del bel contributo di Fulvio Beltrami:  " Ombre cinesi sull'Africa"  e " Il vero volto del Dragone e le sue  conseguenze" che fotografa in maniera chiara la strategia con cui i governanti cinesi stanno muovendosi nel continente africano.
Oltre alle conseguenze di natura strettamente economica, ben descritte da Beltrami,  dietro il dinamismo dei cinesi si nascondono ben altre insidie, di natura più propriamente politica.
Innanzittutto, i cinesi non pongono alcuna pregiudiziale di carattere democratico ai propri interlocutori africani, ai quali mai si permetterebbero di ingerirsi negli affari interni dei paesi con cui operano, sollevando obiezioni sul livello del rispetto  dei diritti umani o delle libertà individuali. E fin qui la differenza con  le potenze democratiche occidentali non è poi così eclatante; infatti, è difficile trovare un governo che rinunci al perseguimento di propri  interessi politici o economici in un paese dalle dubbie credenziali democratiche. I molti despoti africani  che portavano affari non si sono mai visti chiudere la porta in faccia dalle cancellerie occidentali.
La diffusa presenza cinese in Africa porta con sè un altro risvolto molto più insidioso che viene così sintetizzato, molto efficacemente, in un editoriale di Avvenire di domenica.  La grande modernizzazione cinese, la sua crescita vertiginosa sui mercati, i suoi appetiti attorno alle materie prime, la sua crescente influenza in vaste aree del mondo non hanno portato a un’evoluzione in senso democratico e liberale, quella cioè che ha guidato per almeno due secoli il progresso delle democrazie occidentali, ma viceversa hanno offerto un’impressionante dimostrazione di come la mancanza di democrazia, la latitanza di diritti umani e della più elementare libertà d’espressione non siano state affatto un handicap per l’affermarsi di una superpotenza politica, economica e militare.....
 ... Una sirena che dall’Africa all’America Latina al subcontinente asiatico sta ammaliando molti Paesi emergenti, che nella crescita stentata delle economie americane, europea, giapponese intravedono la conferma di un modello superato.
Il successo economico del modello cinese, ottenuto senza un parallelo sviluppo dei diritti e delle libertà individuali, o peggio a fronte di una vera e propria loro coartazione, ingenera nei governanti africani, specie in quelli più attenti allo sviluppo del proprio paese, la convinzione che le conquiste in campo economico siano di per sè sufficienti per decretare la bontà di una buona governance a prescindere dalla diffusione e dal riconoscimento delle libertà individuali elementari.
Se così fosse, forse verrebbero meno anche certe speranze, da più parti teaorizzate, che la libertà in campo economico si declini necessariamente con la libertà tout court e che alla fase di sviluppo economico di un paese debba necessariamente accompagnarsi un'evoluzione sul piano dei diritti e delle libertà individuali.
 Purtroppo, il modello cinese sembrerebbe smentire questa convinzione, ponendosi come cattivo esempio per quei paesi, tralasciando quelli ove vigono regimi dittatoriali, che stanno muovendo i primi passi verso una possibile evoluzione sulla strada della dialettica democratica.

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