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venerdì 21 maggio 2010

Quando il volontario è africano

Un bella storia  africana ci viene raccontata nell'ultimo numero del settimanale Vita. E' la storia  di un gruppo keniano attivo a a Nyahururu,cittadina del Kenya sulla linea dell’equatore. Qui da 13 anni si sta sperimentando la via dello sviluppo che parte dal basso puntando su una risorsa ignorata: il volontariato africano. Stiamo parlando della comunità di base Saint Martin,  dove  1.300 volontari locali sono impegnati
in sei programmi di intervento, dalla reintegrazione dei bambini di strada, alla cura delle persone disabili, alla prevenzione dell’Aids, al microcredito, ai diritti umani.
Il Saint Martin è operativo dal 97 su impulso di un sacerdote italiano della diocesi di Padova, don Gabriele Pipinato, e di un primo gruppo di 11 volontari kenyani. Negli anni l'iniziativa si è consolidata fino a diventare  un’organizzazione non profit, formata da più di cento persone stipendiate e da una vasta rete di volontari, attiva non solo nella cittadina, ma anche nei villaggi circostanti.  Nelle comunità i volontari vanno a visitare le
famiglie in difficoltà, segnalano i casi di persone ammalate o disabili, mossi dall'interesse per l’altro che alberga in ognuno.Ma sentiamo la testimonianza di alcuni dei protagonisti. La signora  Madoia, casalinga, moglie di un contadino e madre di quattro figli, dice di essere scettica sul fatto che chi viene dalla città possa capire i problemi del suo villaggio, figurarsi chi proviene da un’altra nazione, e quindi afferma con convinzione  «Per questo mi sento responsabile.......questa è la nostra gente, si tratta dei nostri figli e dei nostri amici». Nel suo villaggio Madoia è un riferimento e  racconta così la sua esperienza: «Se una mamma è malata bisogna pensare anche  ai suoi bambini, per esempio assicurarsi che vadano a scuola. Io ne parlo con gli operatori sociali del Saint Martin e cerchiamo una soluzione insieme alla comunità, partendo innanzitutto da quello che gli altri genitori o gli insegnanti possono fare».
Fra gli operatori del Saint Martin 38 sono “mobilitatori di comunità”. «Sono loro la chiave di questo modello di sviluppo», spiega Thomas Kihara, ex preside di scuola elementare e ora uno dei responsabili, «il loro obiettivo è creare una cultura della condivisione partendo dalla prospettiva che se, per esempio, un bambino è orfano e vive sulla strada, il problema è di tutta la comunità. I mobilitatori vanno a parlare con i responsabili della scuola, con i parenti del bambino e con altri genitori». Il successo del Saint Martin si regge su un delicato equilibrio fra donazioni provenienti dall’estero e protagonismo locale. «Le ong sottovalutano la capacità di donare degli africani, che ha alla base una profonda spiritualità. Fanno fatica a uscire dal binomio donatori- beneficiari», afferma Kihara, «alla base della nostra attività c’è tanto lavoro di formazione, ma la generosità di molte persone non finisce di sorprenderci».
Purtroppo,nella nostra esperienza in terra rwandese  non abbiamo avuto, almeno fino ad oggi, la fortuna d'incontrare persone animate  di un simile spirito. Forse tutto sta nel riuscire ad affrancarsi da quel particolare binomio "donatori-beneficiari", citato da uno dei protagonisti,  che ingabbia tanti nostri comportamenti ma anche quello dei nostri amici rwandesi. L'esperienza keniana insegna tante cose, anche quella che dalla disponibilità gratuita dei primi volontari è nata un'occasione reale di sviluppo se è vero che oggi un centinaio di quei volontari sono diventati degli stipendi. Allora nasce una domanda: perchè è tanto difficile incontrare tra i giovani locali, ma anche tra i professori piuttosto che tra i tecnici, qualcuno che si impegni a fianco del muzungu con spirito volontaristico,  perchè come dice mamma Madoia in fin dei conti «.....questa è la nostra gente, si tratta dei nostri figli e dei nostri amici», senza rincorrere il tornaconto immediato? Gli amici del Saint Martin hanno avuto la pazienza di seminare prima di raccogliere i frutti del loro impegno.

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